Definirli psichedelici risulterebbe troppo vago. Per non parlare della macro etichetta “indie rock”. Shoegaze? Sì, ma non sempre, o non in modo così caratterizzante. Pop rock? Sì, ma non ci siamo ancora. Ambient punk? È così che si sono spesso autodefiniti, ma ancora non basta a inquadrare il loro stile. Se proprio dovessimo delineare i tratti distintivi di una delle band americane meno scontate degli ultimi vent’anni, potremmo rintracciarli nella matrice malinconica e introversa dei loro contenuti. La loro musica fluttua in ammollo nel liquido amniotico dei ricordi, nell’esplorazione della solitudine esistenziale e nell’evocazione di un’ampia stratificazione di emozioni legate a doppio filo alla personalità complessa e problematica del fondatore Bradford Cox.
Why Hasn’t Everything Already Disappeared? Perché non è ancora tutto scomparso? È la domanda che i Deerhunter scelgono come titolo del loro ottavo album, uscito su 4AD il 18 gennaio 2019 e prodotto insieme a Cate Le Bon, Ben H. Allen III e Ben Ette. È un lungo interrogarsi sul presente e sulla graduale scomparsa di senso generale della cultura, ma anche sulla natura, la logica, l’irrazionalità emotiva. In un’epoca storica in cui le soglie di attenzione sono ai minimi storici e gli algoritmi stanno per prendere il posto delle attività intellettuali prettamente umane come arte e musica, perché se tutto è già svanito, non è ancora tutto scomparso? In questo disco, a circa vent’anni di distanza dal primissimo giorno in sala prove, sono ormai lontani dagli echi ruvidi e punk che caratterizzavano i loro primi (indimenticabili) lavori, mentre si rafforza l’altra connotazione dominante della loro musica, quella più evocativa e atmosferica, consegnandoci un lavoro sempre e comunque all’altezza delle aspettative.