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ANGELS OF LIGHT

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Ve li ricordate gli Swans? Sì, esatto: proprio “quegli” Swans che, in quasi vent’anni (dagli esordi del 1983 all’ultimo Greatest Hits del 1999, chiamato assai sardonicamente “Various Failures” in omaggio allo scarso trascorso commerciale che, chi più chi meno, avevano avuto tutti i loro lavori) avevano srotolato storie di morte e dannazione sopra un fondale gotico, disturbato –e spesso violentato- da variegate, primordiali isterie industrial metal. Proprio “quegli” Swans che, nel 1987, avevano dato alle stampe il grandissimo, insuperabile affresco decadentista di “Children Of God”, un cult sia per ogni generazione di dark che si rispetti, sia per chi vive quotidianamente a pane e metal distorto. Proprio “quegli” Swans che si erano dissolti nel nulla, con l’apparire del Nuovo Millennio. Ora la mente maschile degli Swans è tornata. Sia chiaro: nessuna voce di reunion –anche se, coi tempi che corrono, never says never-. Semplicemente, Micheal Gira se n’è uscito con l’ennesimo album solista. Ovviamente, da buon istrione qual è, non si firma con il suo nome di battesimo, ma decide di usare, ancora una volta, lo stesso pseudonimo che ha già caratterizzato gli illustri precedenti: Angels Of Light. La scelta del nome (e, in particolar modo, della bella copertina in questione) potrebbe fuorviare un ipotetico ascoltatore, riguardo il genere di musica trattato: gli “angeli della luce”, infatti, sono più cupi, insonnoliti e psichedelici che mai. Sebbene le produzioni singole di Gira, con il loro pseudo-cantautorato bislacco e un po’ allucinato, si discostino con decisione da quello che era l’archetipo sonoro degli Swans, non bisogna aspettarci radiosità, né tantomeno luminosità da questi cinquantacinque minuti, perché la formula rimane sempre la medesima: un'atmosfera decadente (quella sì, ripresa dalla band maestra), una voce nasale e un po’ alcolica, strumenti notturni ed accordati sempre su tonalità medio/basse. E, magia: ecco che, nel 2007, prendono vita le dodici canzoni di “We Are Him”. Es è vero che la ricetta è sempre la medesima, è pur vero che lo chef la sa mettere a puntino ogni volta in maniera impeccabile. Gira, pardon, Angels Of Light dosa con sempre maggior perizia gli ingredienti che portano inevitabilmente al successo, rischiando, magari, meno di quanto ci si potesse aspettare, ma portando a casa gli ennesimi dodici gioiellini. Non si può dire davvero nulla, sin dall’apertura: perché quella “Black River Song” che alza il sipario, con la sua ritmica onirica e martellante, le sue parti vocali dissonanti e magnetizzanti, le sue scampanellate che si accordano a meraviglia con il tetro Hammond in sottofondo sono davvero il cocktail micidiale da assuefazione diretta. E non è certo un episodio isolato: i ritmi funerei della chitarrina che apre “Promise Of Water” sono pressati in un teatrino stordito, che viene attraversato più e più volte dagli arpeggi smarriti di un violino solitario. Intendiamoci: non che tutto sia sempre bonario e sonnacchioso. C’è spazio anche, ad esempio, per la spigolosa caricatura stonerrock, dominata come al solito dall’inconfondibile voce del singer, di “My Brother’s Man”: o ancora, per uno stranissimo country, rivisitato sotto gli effetti stroboscopici dell’LSD, che è terreno di battaglia per la sensuale “Good Bye Mary Lou”, uno degli episodi più felici dell’intero lavoro. Particolare rilevanza la ottengono anche le ballate che, seppur venate di malinconia, riescono a mantenere la loro solita scarica eterea e sognante: come, ad esempio, “The Visitor”, che in più punti può richiamare alla mente alcuni pezzi dell’Elliott Smith più ispirato –toni funebri esclusi nel prezzo- o, ancora, la conclusiva “Star Chaser”, una lunga riflessione interiore per sola chitarra e voce che, seppur a volte troppo caramellata, conserva un suo qual certo distacco incorporeo, rendendola sempre piacevolmente particolare. Per non parlare di “Sunflower’s Here To Stay”, un’iniezione a ridotto consumo energetico di gospel che, a larghe tratte, si colora di folk cantautorale –con tanto di tromba!-. Certo è che i due brani migliori sono posti esattamente nel centro di “We Are Him”, uno dietro l’altro, quasi a sottolineare una particolare vena creativa. La titletrack, in poco più di quattro minuti, presenta moltissimi cambi di tono, sviscerando i più svariati strumenti (nella compagnia si registra anche una fisarmonica), che spiazzano in maniera sardonica i timpani dell’ascoltatore con il loro saliscendi altalenante e bizzarro. Ma la minacciosa “Sometimes I Dream I’m Hurting You” è quanto più si potesse chiedere da Angels Of Light. Se il feedback d’apertura cede il passo ad uno squisito nocciolo pianistico ed alla caratura vocale del nostro angioletto visionario, poco a poco le parti strumentali subiscono un’accelerata ed una distorsione graduale che le portano a confluire, seppur non col botto finale, in un garage rock pesantemente corretto da inserimenti elettronico/onirici. Fino ad adesso, Gira e ri-Gira, uno dei migliori lavori del 2007. I bambini di Dio riescono ancora a lasciare il segno, questa volta con la firma degli emissari luminosi. Consigliato. www.myspace.com/theangelsoflight www.younggodrecords.com

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