C’è stato un momento, all’inizio degli Anni ’90, nel quale sembrava che una forza superiore avesse messo a disposizione di un pugno di giovani musicisti svedesi l’eredità di quanto di meglio il Progressive inglese aveva rappresentato due decenni prima, consegnando a loro e non a formazioni più altisonanti che prendevano vita in USA (molto spesso dedite a sinfonismi che mescolavano gli Yes ai Gentle Giant), né tantomeno a quelle band britanniche che a partire dagli Eighties si sentivano portatrici dello scettro che era appartenuto ai Genesis (ma dai quali li separava una distanza siderale). Sicuramente fra i primi in Svezia a recuperare il discorso interrotto più o meno a metà degli Anni ’70, troviamo proprio gli Änglagård, che furono all’epoca artefici di due album notevolissimi (“Hybris” del 1992, “Epilog” del 1994), nei quali il verbo espressivo era quello del progressive “in purezza”, senza contaminazioni: una alchimia sonora interamente strumentale (a parte alcuni passaggi vocali sul lavoro di debutto), evocata con mellotron, hammond, moog, flauto, piano, raffinatezze chitarristiche, pulsazioni ritmiche dai tempi dispari che, pur se maneggiata con destrezza e maestria, non cede mai l’emozione al virtuosismo fine a se stesso. Come i loro conterranei Landberk e Anekdoten (entrambi fra i protagonisti della prima ora) non si affermarono a livello mondiale perché in quegli anni il mondo guardava completamente da un’altra parte, sotto le bordate di una nuova marea musicale proveniente da Seattle, dominata dalle stesse urgenze depurative del movimento punk che sotterrò proprio quel prog che, stanco e con poco altro da dire, si era protratto fino alla fine dei Seventies. Ma gli Änglagård non badarono a tutto ciò e fieramente considerarono, come i loro seguaci, la loro musica decisamente lontana da quel prog stanco, logoro e con poco da dire. Le loro complesse architetture sonore tornano oggi a trovare forma e fisionomia: la casa rimasta chiusa per diciotto anni, non è stata rasa al suolo. Viene tuttavia ripulita accuratamente, ristrutturata in ogni dettaglio, liberata dalle spesse coltri di polvere: gli intonaci decorati tornano a risplendere di quella luce tenebrosa che una volta aveva reso magniloquenti, seducenti e cupe le sinfonie degli Änglagård. Eppure oggi si coglie una capacità di lavorare al cesello ogni passaggio, sia quello più epico, sia quello più minimale: gli svedesi hanno imparato a bilanciare i temi più enfatici con una cura maniacale nell’intagliare bassorilievi. Anche chi, pur avendolo amato, ha preso le distanze dalle lande brumose del progressive settantino, non può non tornare a provare un fremito e una autentica vibrazione emotiva nel lasciarsi cullare da una gemma come Sorgmantel: un sistema complicato di pesi e contrappesi fatto di evanescenze, veemenze, schizofrenie, pacificazioni. www.anglagard.net/ https://www.facebook.com/anglagardrecords