BEE GEES "This is where I came in" Le voci sono diventate fragili e quando Barry si esibisce nel suo leggendario falsetto vibrato viene da dargli una pacca sulla spalla perché è evidente che non è più la stessa cosa. Ma il disco è una piccola gemma e la voce di Barry è pur sempre un'emozione. I Fratelli Gibb hanno vissuto per almeno dieci anni con la sindrome di Peter Pan che tutte le mattina gli bussava alla porta travestita da "royalties". Non sapendo mai che fare, finiva che le aprivano e ogni volta erano dolori. Guadagnavano come bestie ma non riuscivano più a scrivere una canzone decente, una canzone che avesse anche una sola possibilità di confrontarsi con l'immenso passato. Poi deve essere successo qualcosa. O hanno cambiato casa senza comunicare alla sindrome di Peter Pan il nuovo indirizzo, o hanno trovato la forza di non aprire più la porta. Fatto sta che "This is where I came in" è una specie di rivincita delle idee. Cacciata di casa l'angoscia dell'età dell'oro, i Gibb si sono rimessi a "sentire" e hanno finalmente prodotto una decina di dignitose canzoni, con sprazzi beatlesiani (grande il cabaret di "Technicolor dreams") che rimandano ad "Odessa" e "Trafalgar", pop song da metà anni Settanta (stile Main course e Children of the world) e un gioiello come "Loose talk costs lives" che potrebbe splendere accanto a "Don't throw it all away" e non sfigurare affatto. Una corsa a ritroso per rilanciarsi senza patetismi e sconfiggere la paura di essere rimasti bambini. Chi è cresciuto a pane e "Love so right" avrà di che leccarsi i baffi.