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CECIL TAYLOR

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Cecil Taylor solo Pianoforte Cecil Taylor è un musicista affatto singolare nel panorama della musica del Novecento. Sicuramente egli ha una collocazione all’interno dell’ambito jazzistico, ma essa gli viene più dalla natura razzista della (in)cultura statunitense che non da una sua disposizione personale a celebrare e sviluppare i temi che avevano caratterizzato il jazz nella sua storia, fino alla seconda metà degli anni Cinquanta, quando la sua personalità comincia ad emergere dall’insieme della musica nero americana. È uno straordinario pianista, che ama l’improvvisazione, che sicuramente ama Duke Ellington e Thelonious Monk ed altri musicisti che hanno fatto la storia del jazz, ma questo non basta a far sì che si possa dire che da quella musica gli vengano tutti gli stimoli per la propria. Certamente gliene vengono quanto basta a permettere a noi di collocarvelo, ma altre cose che lo appassionano la connaturano, e non sono precisamente cose della cultura jazzistica. Come non sappiamo se e quanto chi sta al di qua della musica imponga, per così dire, i propri limiti alla creatività dei musicisti (come credo abbia scritto Cocteau, il pubblico andrebbe in bicicletta mentre gli artisti andrebbero in aeroplano – non è una citazione esatta, ma quel che interessa è la differenza di velocità) così non sappiamo esattamente quanto i musicisti nero americani abbiano in definitiva accettato di stare nella categoria del jazz anche quando non lo avrebbero desiderato. Sta di fatto che Cecil Taylor si è ritrovato collocato in essa, come nell’unica nella quale avrebbe potuto sviluppare la propria creatività. Per sua buona sorte, la sua “costrizione” nel jazz avvenne in un periodo in cui questa musica era in grande movimento. Da prima Sonny Rollins e Max Roach, poi Mingus e, infine, John Coltrane e Ornette Coleman stavano sviluppandone le forme espressive in maniera estremamente ricca. Questi artisti lo facevano tutti dall’interno del jazz, muovendo i loro passi, cioè, da modalità espressive che erano venute maturando all’interno dell’idioma jazzistico postparkeriano. La rottura della continuità metrica, i tempi dispari, lo scivolamento ritmico, la forma aperta, il progressivo abbandono della tonalità e l’affrancamento dall’intonazione temperata, anche se non per promuovere quella naturale, come sta avvenendo in La Monte Young. Non ci riesce di credere che Cecil Taylor sia stato, se non per reazione, un antagonista alla cultura degli statunitensi di razza caucasica – cosa che, del resto, può venir predicata di gran parte dei musicisti nero americani, da Louis Armstrong ad Edward Kennedy, a John Lewis, a Charles Mingus e a chissà quanti altri. In questi musicisti troppi sono i segni di un loro reale interesse a farsi compartecipi ed eredi dei valori prodotti dalla cultura degli altri americani, per non dire di quella europea. Ciò vale anche per Taylor, al centro del cui immaginario s’insediano il teatro di danza, nella sua tradizione ottocentesca, e la poesia. Lasciando da parte quest’ultima, che non ci sembra avere riflessi clamorosi nella sua arte non fosse per le vocalizzazioni oscure che, con senso del tutto ambiguo, ma teatralmente forte, egli viene a volte producendo nei suoi riti d’avvicinamento al pianoforte (la scena è buia, allora, e la sua ombra l’attraversa nel fondo nascondendosi e ricomparendo, con passi rapidi di danza, avvicinandosi infine allo strumento), una volta seduto di fronte alla tastiera, Taylor prende a farvi “danzare” sopra le mani, ispirato dall’azione dei corpi di etoile che l’hanno impressionato, da lui ricordati, anche nei racconti, con vivida memoria. C’è voluto un po’ per capire quanto avveniva e, forse, ch’egli stesso instradasse il pensiero critico. Il quale, da prima, fu impressionato dalla furia del movimento delle dita e, diciamo, dall’indifferenza del musicista nei riguardi dei singoli suoni tratti dalle corde. Sembrava un espandersi straordinario della lezione di Monk, e in parte lo era. Ma là dove questi procedeva con passo solenne, nel ricordo di uno stride mai dimenticato, Taylor non accentuava il beat, ma faceva fluire ventate di suoni, più vicino in ciò, ma non in altro, a Coltrane. Fu la stagione felice del free jazz che, nel suo farsi, portò una nuova costituzione nel territorio del jazz, che, da prima, diciamo, octroyé, concessa, fu vissuta come uno strumento di ampia liberazione dal dettato nero americano, dai musicisti di tutto l’Occidente. La partitura tayloriana non fu allora radicalmente diversa da quelle “grafiche” che venivano consegnate agli esecutori dai musicisti europei coinvolti nella politica di liberazione del linguaggio musicale dai vincoli della tradizione. Il mondo conservatore del jazz, anche orgoglioso della differenza della musica prediletta, stentò molto ad accettare l’idea; si divise, si schierò. Nelle contrapposizioni politiche incernierate sull’espressione musicale venne perdendosi non poco della poesia tayloriana; non poco della delicata bellezza dei frutti della sua action pianistica. Ai più sembrò che la musica rispondesse a un’ideologia, che fosse un surriscaldato comizio. Ora, passati gli anni di una generazione, sebbene il gesto sia sempre intenso e vigoroso, le dita martelletti implacabili, la densità dei suoni altissima, sebbene il reticolato sonoro continui a non dipanarsi più che per nonnulla intravisti in semplificazioni melodiche, il pianoforte di Taylor non colpisce più coi sensi di un’aspra vertigine. Il musicista ha attenuato senz’altro i toni più duri della sua retorica, ma soprattutto il pubblico si è lentamente evoluto e “in bicicletta” è arrivato nel territorio sonoro di quel Taylor che allora, negli anni Settanta, risultava ancora a distanza siderale. Vorremmo aggiungere che un’altra componente dell’arte tayloriana, sommandosi all’aspetto già evidenziato, risultava ostica: la durata delle sue performance. Essendosi tenuto il mondo del jazz a distanza contigua anche con la musica pop, solo dalla metà degli anni Cinquanta, con l’ellepi (i dischi a 33 giri, aveva cominciato a offrire all’ascolto percorsi narrativi che si venivano allontanando dallo standard dei 3 minuti, una misura non certo essenziale, né costitutiva, ma acquisita dalle abitudini indotte dal 78 giri. Venti, trenta, sessanta minuti di pianismo senza melodie, fortemente ritmico, ma privo del conforto del beat, armonicamente indifferente al dettato tonale, non erano certo né di agevole fruizione, né di facile comprensione. Con Cecil Taylor l’opera musicale nero americana si allontanava marcatamente dalla prossimità con la musica pop, pretendendo una concentrazione d’ascolto ancora inconsueta. Quella che viene chiamata “musica leggera”, di fatto, è inascoltabile: quasi sempre i suoi contenuti si consumano immediatamente e nella forma AABA, nell’arco di un 3 minuti, si ripete 3 volte lo stesso tema, l’A, mentre il B spesso non risulta segnato da una evidente distanza né nei materiali, né nell’espressione. Peggio ancora la forma blues, col suo “giro” di 12 battute che percorrono ipnotiche e consolatorie un unico iter ripetutamente. Naturalmente era altro ciò cui prestavano attenzione gli appassionati di jazz, tanto che fin dai primi tempi fu possibile ragionevolmente sostenere che si trattasse di una performing art, il che facilitò la critica di Adorno, non grossolana, anche se poco competente, attestata sull’opposizione a una prassi che non riguardava la cosa in sé, ma l’abito indossato. Date le condizioni, un concertismo esteso, denso, con musiche sature di “informazione”, ai più, sia pure del jazz, non poteva riuscire immediatamente gradito. Però Taylor non subì mai una violenta opposizione. Di fatto non cercava i luoghi, le occasioni che avrebbero potuto dargli popolarità, ma veniva costruendo il suo pubblico con un impegno costante soprattutto in situazioni particolari. Ora per lui il contesto è cambiato. A Berlino ha avuto attorno il fior fiore della creatività europea, in Svizzera l’Uncool festival l’ha visto perno di 3 serate cult ed ora viene ad AngelicA, dove il jazz non si può dire sia di casa. Se ne osservi l’ingresso, si vedrà un misterioso teatro giapponese, se ne guardi l’azione, è quella di un ballerino, se ne osservino le mani, sono il palcoscenico del Bolscioj, se ne ascolti la musica, è il pianoforte contemporaneo. Giampiero Cane

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