Nella sconfinata e variopinta discografia ereditata dal periodo d'oro del progressivo Made in Italy di inizio anni settanta trova spazio una nutrita schiera di lavori divenuti veri e propri cult di genere; necessariamente di difficilissima reperibilità sul mercato, molto spesso curiosi ed originali, esistono vinili che hanno assunto con il trascorrere degli anni la dimensione di veri e propri oggetti del desiderio per i più ambiziosi ed irriducibili collezionisti. Se poi, a tutto ciò, si va ad aggiungere un convinto riconoscimento postumo del valore tecnico-artistico ed una spruzzata di alone misterioso il quadro è definitivamente completo ed accattivante. Ad uno di questi singolari progetti vengono accomunati i nomi dei tre Goblin Claudio Simonetti, Fabio Pignatelli e Massimo Morante, del maestro Carlo Bordini e del cantante Tony Tartarini. Nel 1974 questo dotato ensemble di musicisti al ritorno da una breve esperienza artistica in terra britannica realizzò per l'etichetta Cinevox un ottimo trentatré giri denso di tutte quelle che erano le venature tipiche del rock sinfonico d'oltremanica (gli ammiccamenti ad E.L.P. e Yes sono palesemente leggibili). Una serie di contrattempi e trasformazioni in corso d'opera - dapprima il rifiuto da parte di Bordini di firmare un contratto con la label ed in seguito l'esplosione del fenomeno Profondo Rosso con una formazione che non prevede più la presenza del batterista romano e quella di un vocalist di ruolo - sono le cause che presumibilmente determinarono lo slittamento della distribuzione dell'ellepì al 1976.
Adattato il fantomatico moniker Cherry Five (Oliver e Goblin erano state le scelte originarie) sulle note di copertina del vinile omonimo compariva una line-up ridotta ai soli Bordini e Tartarini, l'attribuzione della composizione dei brani alla coppia Simonetti-Morante e non esisteva alcun credit che facesse riferimento alla partecipazione di Fabio Pignatelli. La tiratura limitata pregiudicò la diffusione del disco che all'epoca passò perlopiù inosservato; solo in seguito, un rinnovato trasporto nei confronti dell'importante movimento artistico e l'eco di interesse stimolato dalle affinità Cherry Five-Goblin hanno determinato una postuma rivalutazione dell'opera decretandone l'importante collocazione tra le più rappresentative del periodo d'oro. Adesso a distanza di quattro decenni, dall'incontro tra Carlo Bordini ed il competente tastierista dei Taproban Gianluca De Rossi – nato in occasione della rivisitazione di “Opera prima”, lavoro del 1973 a firma dello stesso batterista e di Paolo Rustichelli – prende vita il capitolo successivo di quell'eccentrico progetto prog-seventies. Allo storico vocalist Tony Tartarini vengono affiancati per questa seconda avventura Cherry Five l'apprezzato contrabbassista jazz Pino Sallusti e il poliedrico chitarrista Ludovico Piccinini (Prophilax) perfezionando una line-up di cinque musicisti di indubbio spessore tecnico-artistico. Nel prosieguo di una tradizione estremamente gradita all'ambizioso scenario progressive “Il pozzo dei giganti” attinge ispirazione al classico per eccellenza della letteratura, La Divina Commedia di Dante Alighieri, tema ben incarnato dall'intrigante artwork di copertina “Sedotti dalla superbia” realizzato dalla pittrice romana Daniela Ventrone.
Articolato in tre composizioni rivolte, in ordine di scaletta, alle cantiche di Inferno (Il pozzo dei giganti), Purgatorio (Manfredi) e Paradiso (Dentro la cerchia antica) Il pozzo dei giganti si rivela sin dalle prime battute una sapiente miscela di tecnica esecutiva e di mirabolanti evoluzioni dal sapore vintage; l'allettante recita di Tartarini (stavolta in italiano) si inerpica su ripetuti cambi di tempo, sorretta ininterrottamente dalle incisive divagazioni delle sonorità generate di volta in volta dagli hammond, i mellotron e i fender rhodes dell'abile De Rossi, sonorità spesso prigioniere di modulati giri circolari dall'aurea ossessiva e accattivante. Atmosfere in tempi dispari amplificano ed esaltano l'importante ausilio della navigata sezione ritmica Bordini-Sallusti così come risultano sempre incisive le incursioni della sei corde sospese tra fraseggi dilatati e intervalli decisamente più hard. La presenza di interludi e passaggi elegantemente melodici in mezzo a partiture dal fare arrembante accrescono il pathos emotivo del disco rivelandone un inaspettato fervore poetico; il movimento Il tempo del destino incluso nella seconda mini-suite ne è l'esempio più rappresentativo. Non passerà senz'altro inosservato questo ritorno sulle scene di Bordini e soci. Il pozzo dei giganti è l'apprezzabile risultato che scaturisce dall'osmosi artistica di preparati musicisti, accorti nella capacità di estrarre dalle colorate diversità dei personali pregevoli background le espressioni più appropriate per la concretizzazione di un progetto che pur volgendo lo sguardo verso risonanze tipiche di genere si veste di invitante modernità e singolare ispirazione. Un'altra emozionante ed inaspettata pagina musicale spuntata da un cassetto dei sogni che credevamo eternamente chiuso.