"Dog star man" Stan Brakhage ('61/64) Il film è il manifesto del cinema "concreto/astratto" di Brakhage. Brakhage va oltre il cinema, interviene materialmente sulla pellicola, la colora, la incide, la graffia. Il materiale su cui interviene non è soltanto la realtà filmata, ma la concretezza della pellicola, della celluloide. La manipolazione del reale implica, in Brakhage, una manipolazione della celluloide. In "Dog Star Man" c'è la luna, c'è l'uomo, c'è il cane, e c'è l'intervento visibile di Brakhage. C'è "l'uomo" filmato, la cui presenza riconoscibile rimanda contemporaneamente sia ad "un uomo che taglia la legna" (compiendo un'operazione di astrazione, poiché si comunicano significati quali il lavoro, la fatica.), sia all'immagine in movimento, "uomo" come macchia di colore sovrapposta ad altre, movimento astratto di forme e colori. Le visioni che scorrono sono frammenti antinarrativi, scorci di un linguaggio non descrittivo. È uno scorrere incoerente, o per meglio dire, che segue la "coerenza impossibile" dell'inconscio. Il discorso filmico si impasta di un linguaggio mitologico, puramente visivo, archetipico. La luna, la maternità, la fatica del lavoro dell'uomo che si procaccia qualcosa. Un uomo allo stato primigenio (i capelli lunghi, che anticiparono la moda sesantottina, sono un regresso allo stato selvaggio) che si procaccia del cibo, la legna per scaldarsi, accompagnato dal cane (la caccia). Si tratta di una rappresentazione allegorica della vita dell'uomo, della nascita e della rinascita infinita (la luna che ritorna, i cicli della vita, del tempo, il bambino che nasce, e il ritornare dell'interno del ventre rosso, dell'utero); è un'allegoria del destino dell'uomo, che cade continuamente, che procede in salita (anche se a volte è l'obiettivo ad essere inclinato), che si rialza, che scivola a valle e continua il cammino, con il cane.