Mentirei se dicessi di conoscere l'autore di questo disco, ma evidentemente la colpa di tale ignoranza è tutta a carico del sottoscritto, poiché a leggere le note biografiche di Christian Wolfarth, percussionista di nazionalità svizzera, appare chiaro che non si tratta esattamente di un debuttante. Insegnate di musica, collaboratore di compagnie danzanti, una nutrita discografia alle spalle e, come quasi d'obbligo per chi agisce nell'ambito della nuova elettroacustica impro, una pletora di collaborazioni con altri artisti, tra cui, tanto per citare, Jason Kahn, Annette Krebs, Günter Müller e John Butcher. In questo cd comunque il musicista agisce da solo, scelta sottolineata anche dall'utilizzo del proprio cognome per titolare il tutto. L'approccio ai suoni di Wolfarth che, a differenza di altri percussionisti operanti nello stesso ambito, dichiara di non estendere il suo kit con devices elettronici, è fortemente fisico, tattile, plastico e materico. I suoi sono suoni che spesso sembrano svilupparsi quasi a prescindere da una precisa disciplina del musicista, spersonalizzati nella loro sostanza, senza che questo significhi l'utilizzo di logiche banalmente aleatorie. Tali caratteristiche sono ben presenti nel primo lungo brano, a mio avviso sicuramente l'apice del disco, ascoltando il quale non posso fare a meno di fissare la copertina del cd. Una piscina apparentemente abbandonata, nessuna traccia di presenze umane, la vegetazione che sembra voler invadere le strutture di metallo e cemento; un luogo silenzioso che però è stato scenario di attività e rumori molto intensi. Ed è come se parte di questi flussi d'energia fossero rimasti a lievitare sul luogo, dormienti e in attesa di manifestarsi nuovamente, finalmente liberi da schemi per dar vita ad un flusso sonoro che ribolle e muta come magma primordiale. Suoni che partono striduli, che scivolano gli uni sugli altri frenati solo da attriti impossibili, che risuonano da lontano, masse che si muovono, rombano, crescono e crescono, sino ad implodere e diventare insostenibili sibili ad altissima frequenza. Brano estremamente affascinante e difficilmente riconducibile all'utilizzo di sole fonti acustiche, che rende arduo il confronto per il resto del disco, abbastanza diverso nelle situazioni proposte. La seconda traccia è come splittata in tanti piccoli chunks, ognuno isolato da brevi istanti di silenzio che propongono un piccolo campionario di danze tribali provenienti da non identificati mondi alieni intravisti con la coda dell'occhio, mentre il terzo brano è una ritmica pioggia di grandine da dentro una stanza aneoica intaccata solo da un tremolante luccichio sinusoidale. Più tradizionale il drumming del quarto brano mentre l'ultima traccia riprende in parte le atmosfere dell'apertura (sia pure con meno intensità) chiudendo così il cerchio in un florilegio di corpi metallici. www.ch.wolfarth.ch.vu