Cry magari non farà piangere, ma di sicuro rende un tantino più tristi per ciò che poteva essere e non è stato. Del resto, la formula scarna, orecchiabile e ostinatamente minimale ai limiti della dabbenaggine, già in partenza si prestava a cadere nel trabocchetto di una certa ripetitività. Le strade per evolversi, oltre a quella di tirare fuori canzoni talmente belle dal rendere superfluo ogni ulteriore commento (soluzione che però scartiamo a priori perchè non è questo il caso), erano due: ampliare lo spettro sonoro con l’aggiunta di ulteriori elementi o cambiare totalmente il paradigma in tema di mood generale. Greg Gonzalez e soci sono rimasti schiacciati nel mezzo, prigionieri di un’inaspettata pochezza o magari solo di una sopravvenuta pigrizia in fase compositiva, prima ancora che di uno stereotipo il quale, evidentemente, non sono stati così accorti e scafati nel rigirare a proprio favore.
E pensare che per registrare questa seconda fatica in studio, ispirata – si legge nella nota – dai film di Éric Rohmer e dai brani di Selena e Shania Twain, il trio ambient-pop texano si era ritirato in una villa sull’isola spagnola di Maiorca. «Vedo questo disco come un film – ha scritto lo stesso Gonzalez, deus ex machina del progetto – è stato girato in questa incredibile ed esotica location. È ciò che lega tutti questi personaggi e scene». Anche se poi, l’ispirazione per Heavenly, debole singolo di lancio insieme al successivo Falling In Love, è venuta al leader e principale compositore rimirando «un tramonto infinito su una spiaggia isolata in Lettonia, durante una serata estiva».