Per Elvis Perkins, il gioco delle assonanze associa misteriosamente aubade a obbedire: “Mi ha indotto a considerare a chi e a che cosa ho obbedito, invece che alla legge naturale e a quella sovrannaturale”. Proprio per questo ha deciso di intitolare “I Aubade” il suo terzo disco. “Per me è più un verbo al tempo presente che non un antico sostantivo: è tutto quello a cui rivolgo aspirazioni e speranze, offrire all’accrescersi della notte una suggestione di alba”. Sembra impossibile, nell’era dei social network, sfuggire alla tirannia della condivisione permanente. Eppure Perkins ce l’ha fatta. Per quasi sei anni, dall’uscita del precedente “Elvis Perkins In Dearland”, non si è soltanto tenuto lontano dai riflettori: ha scelto in pratica un esilio volontario dalla vita digitale. Niente sito ufficiale, niente Facebook, niente Twitter, niente notizie sul suo conto. Qualcuno aveva pensato persino a un ritiro dalle scene (o peggio). La spiegazione, in realtà, è molto più semplice: “Mi sono misurato con la realtà”, spiega lui stesso. “Nei miei panni, nella mia vita, vivendo e basta. Le cose richiedono tempo, e il tempo è relativo”. “I Aubade” riflette proprio questo approccio: un disco che ha richiesto tempo per nascere e che richiede tempo per essere compreso. Un disco che segna una cesura netta con il passato: i compagni di band, Wyndham Boylan-Garnett e Nick Kinsey, stavolta restano sullo sfondo, in mezzo a una lunga e variegata lista di collaboratori (in cui spicca tra i tanti il nome di John Congleton). Gli studi professionali lasciano il posto a un registratore a quattro tracce, pronto a catturare suoni e rumori tra le mura di casa, a New York, oppure in una vecchia roulotte o in qualche camera d’albergo in giro per l’America. E dalle certezze di un contratto discografico si passa all’avventura di un’etichetta autoprodotta, battezzata Mir.