Commuove e diverte. Trascina e incanta. E’ il nuovo disco della band carpigiana Ero, formata da Simone Magnani (voce), Enrico Pasini (tromba e piano), Enrico Gherli (chitarra), Marco Manfredini (basso), Mattia Crepaldi (batteria) e Luca Righi (chitarra). Dopo l’album di debutto Fermoimmagine, la band torna con Di padri e altre storie: un album maturo. Da ascoltare. Più volte. Nove pezzi dalla chiara impronta cantautorale, i cui testi, scritti dal frontman Simone Magnani, convincono per poetica ermeticità. Ogni brano è una storia. Una dedica. Una confessione. Gli Ero raccontano l’amore, il rispetto per i padri, i maestri. Si interrogano su Dio, sulla fede e tratteggiano i contorni di una vita sempre più posticcia. E tra maschere vacue, il pianto di un clown e relazioni svuotate da ogni senso, questi musicisti si appellano al coraggio. Quello di essere se stessi. Sempre. A ritmo di rock. Talento, fortuna, successo… cosa occorre per sfondare? Ne Il grammo che non c’è - singolo che uscirà in anteprima su tutti i portali musicali il 18 gennaio anticipando il disco che debutterà il 15 marzo - gli Ero si (e ci) divertono, ironizzano: “sarà la pratica, la matematica o una divinità che mi allontana dalla meta, ma la verità è che per scegliere come procedere, provando a vincere, occorre un grammo di talento ed io non ne ho… quel grammo che non si può inventare”. E poi arriva Stile, un inno pungente all’apparenza dell’oggi, asciutto e sarcastico: “io che sogno di esser lui ma che fingo indifferenza e continuo nel mio finto dialogo… c’è stile nel mio sommo incedere ma quando mi fermo un po’, riscopro un vecchio solco ma non trovo l’anima”. L’ospite è una chicca deliziosa. Figlia del nostro tempo, del disimpegno, della sete di possesso. Di potere. E (vana)gloria. Sprezzanti di tutto il resto. “Voglio un’idea che mi faccia fare cassa senza farmi muovere… calma e coerenza son doti che vorrei, la trasparenza mi castra e mi vincola! Qualcosa inventerò perché se bramo ottengo, perché se ottengo, stringo, è tutto qui per me. Lascio quando ho spremuto il succo, poi mi rimetto in gioco. Io sono l’ospite”. Il brano Di versi simili è uno di quelli che ti entra nel cuore al primo ascolto. Due universi, quello maschile e quello femminile, che si sfiorano, parlando lingue diverse. Muovendosi a ritmi differenti. Con delicata sensibilità, Magnani tratteggia quella danza. I dialoghi, così come i silenzi, le mancanze: “mentre parli mi accorgo che ciò che vivi è visibile, con le parole disegni e vorrei farlo anch’io, che nel mio mondo sono chiuso da un po’. Se proferire ti sazierà, raccontami tutti i momenti, di prati e deserti, io sono qui, tra il buio e te, sarò il tuo schermo complice e quando il ruolo si invertirà, strattonami, strappami via le parole da dentro. Immergiti, colpiscimi e poi, come i padri, abbracciami”. E dopo la dolcezza e l’invito a colmare le distanze, ti sorprende Tre. Squisitamente rosckettara, ci racconta di un ménage à trois. Tra tradimenti, aspettative e bugie: “tu sei per lui la condizione, il suo perfetto opposto, ma non ti sente più, sarà perché ti muovi verso di me”. Gioiello del disco è sicuramente L’ultimo uomo buono. Una vera e propria dichiarazione d’amore e di rispetto a un padre. La tenerezza del figlio in questo pezzo si fa carne. Palpabile. E commuove. “Dovrei vederti inveire contro il mondo, vorrei sentirti imprecare contro dio… ma, preghi. La mia incostanza non ti ha mai oscurato il volto e se potessi, prenderei ad esempio te… mentre conforti lei durante i giorni critici, sorridi al tempo che ti invecchia e stanca, il nostro vivere è un po’ il tuo cardine, il tuo presente. Ci sono giorni in cui fai capire che la gravità spinge un po’ più forte e tu sempre conforti me nei fallimenti… perché il mio vivere è un po’ il tuo cardine, il tuo presente. E quando il tempo mostrerà la sua viltà e i tuoi ricordi diverranno gesso, vorrei proteggerti, vorrei concederti il mio presente. Mia colonna, mastice, punto fisso, volontà di ferro e calma sei. Ma quanto apprezzo il mondo, se attraverso te, lo osservo. Mostrami la bellezza che dal nulla prende forma, perché non sai come è buio il mondo quando senza te lo osservo”. E al riconoscimento del padre, fisico, umano e imperfetto, nel pezzo Breve lettera al padre, si contrappone la lontananza di un dio “che ci chiede sofferenza per avvicinarci a sé”. Tra le perle del disco vi è sicuramente I manichini. Dove finisce la realtà e inizia la finzione? Cosa si cela dietro ai sorrisi e alle pose studiate di chi ci sta intorno? “Come i manichini non si vestono se non c’è chi li osserva, nei ristoranti fanno i vip ma non si parlano se non c’è chi li ascolta… La parodia diventa vita in una scatola: aprila! Ci sono i manichini pronti per la recita: chiudila. Buio, silenzio tutto intorno quando il coperchio è su di te, luci sorrisi preimpostati quando il coperchio più non c’è”. Maschere tristi, seguite da quella de Il clown, ultimo brano dell’album pubblicato dall’etichetta discografica tarantina Joe Black Production: un uomo che mente per mestiere, per strappare un sorriso e regalare “un’ora lieta a tutti”. Da non perdere. Jessica Bianchi
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