SOL INVICTUS Mi piace immaginare i Faith No More fortemente intenti a sbattersene in una maniera quasi esaltante di qualunque verdetto lanciato in direzione di Sol Invictus. Guidati dal piglio da giullare mefistofelico di Mike Patton, “una delle migliori voci della sua generazione” (potete attribuire la citazione più o meno a chiunque, panettiere sotto casa incluso, gli sarà capitato di dirlo se ha passato le trenta primavere). Perché sparare contro Sol Invictus è facilissimo: puoi dire che non è il disco che gente di cinquant’anni dovrebbe suonare (e secondo la stessa filosofia un settantenne dovrebbe tenersi alla larga da Mad Max, per rimanere sull’attualità), oppure che è troppo simile ad Angel Dust senza essere Angel Dust, o ancora che ha addirittura qualche divertita pennellata à la The Real Thing, nell’anno domini 2015, signora mia! Il destino di un nome che, a modo suo e nel poco tempo concessogli, ha fatto la storia del rock a stelle strisce in quella confusione tra il finire degli anni ‘80 e l’esplosione dei ‘90, è comunque di venir chiacchierato a prescindere. Tanto più se tra Album of the Year (1997) e questo Sol Invictus si sono messi di mezzo un paio di presidenti degli States, una manciata di guerre, un cambio di millennio e un Mondo Cane. Diciotto anni sarebbero un’eternità anche in un mondo senza il piede premuto sull’acceleratore della notizia da masticare e risputare in tempo record, figuriamoci quindi dalle nostre parti. Epperò c’è anche l’altro modo per mettersi qui, dimenticarsi della possibilità del download digitale e andare fuori dal negozietto scaccione ad attendere che apra per comprarsi il disco: ovvero quello che prevede, come sono piuttosto convinto rientri nello stile della band, il totale menefreghismo verso tutto e tutti. Poi, ancora meglio, ci si mette in pace con il mondo mettendolo su muto e sparandosi i quaranta minuti dell’album fissando compiaciuti il muro. Sol Invictus è solo un bell’album dei Faith No More, dopotutto. L’esercito del bicchiere mezzo pieno sarà già in preda da tempo ai fumi della vittoria (chiamiamoli così), quelli del bicchiere mezzo vuoto potranno lamentare la mancata rivoluzione di chi, quasi trent’anni fa, insegnò una strada a molti di quelli che li avrebbero seguiti. Se ancora oggi c’è chi si ostina a piazzare la discografia di quelli di San Francisco nell’angolo del metal, vuol dire che non sono bastate quasi tre decadi per venire a patti su cosa siano questi Faith No More. Sono quelli dell’orazione funebre della traccia che dà il nome al disco? Con quella doppia voce (entrambe le volte Pattoniana) a sibilarti nelle orecchie vibrando come in altri tempi e il pianoforte a puntellare il tutto… Oppure sono quelli della cavalcata furba abbastanza, rude abbastanza ed esaltante quanto basta per pogare da soli in metropolitana di Superhero? Anche qui, nelle tastiere e nel basso a molla di Mr. Gould, come fai a non ripensare a una miscela stucchevolmente perfetta di The Real Thing e di Angel Dust? Forse sono i circensi nomadi di Sunny Side Up, che pure non cambia (a dispetto del nome) il panorama che ha trovato prima dei suoi tre minuti, ma rimane uno dei più suadenti berciare in cui imbattersi in questa fine di primavera (e qui, in qualche istante, si può svolazzare in zona King for a Day, Fool for a Lifetime). Potrebbero annidarsi nelle esagerazioni velenose di Separation Anxiety, quando perdono qualsiasi glassatura melodica e finiscono per sbavarsi addosso: qui sì che ricordare l’anima metal, una delle tante, dei Faith No More non è peccato. Ora resta solo da capire se questo riff ansiogeno di chitarra e il pulsare del basso siano davvero accettabili da chiunque voglia farsi intossicare deliberatamente, o se invece non sia solo il ritorno di fiamma di chi li ha adorati ai tempi di Surprise! You’re Dead! (ne ho pescata una a caso di quelle lì, piazzateci pure la vostra preferita, nel caso). Ma qualunque “cosa” siano i Faith No More, grazie: grazie per avere la sfrontata facciona da schiaffi di chi può e riesce a scrivere un pezzo ipercinetico come Cone of Shame. Qui alla fine cadono un po’ tutte quelle paranoie su cui tanto qualcuno ha discusso: Mike Patton serve ai Faith No More o i Faith No More servono a Mike Patton? Oltre che per farsi un bancomat, s’intende. Perché dai, alla fine Patton è quello a cui mancano dei venerdì e che insulta il creatore sul palco di un live bolognese richiamando la punizione divina sotto forma di mezzo diluvio (succedeva nel secolo scorso). Quello che preferisce i Fantomas o i Mr. Bungle o i Peeping Tom alla sua band “da classifica”. Sarà, ma la sensazione, oggi come l’altroieri, è che infilato in una gerarchia più precisa e circondato da delle mura mobili ma non invisibili, Mike riesca a non sorpassare la soglia dell’accettabile di quei cinque chilometri come spesso gli succedeva quando lasciato a briglie sciolte. Cone of Shame è questo, per capirci. Una molotov in faccia a non so chi, ma una molotov. Tutta bella scintillante a un certo punto, ma che poi ti fracassa il cranio lo stesso. E se mi avessero detto che nel 2015 i Faith No More se ne sarebbero usciti con qualcosa del genere… no ok, forse ci avrei anche creduto. Che siano dei mentecatti ormai è chiaro da un pezzo. Ci sono altri cinque pezzi in Sol Invictus, ma tanto non è nulla che richieda ancora altre parole. C’è quel giochetto divertente di Rise of the Fall, i giri di chitarra di Black Friday che si estende elastica, la progressione totalmente Angel Dust (forse, forse no, che diavolo) di Motherfucker... e c’è dell'altro ancora. Nella seconda metà del disco la band si diverte di più a variare il menu, anche se i marchi di fabbrica rimangono comunque belli evidenti (per fortuna). Per un gruppo che venne infilato automaticamente nel cestone dell’usato cinque minuti dopo l’uscita del “deludente” (bestie!) King for a Day, Sol Invictus è solo uno dei mille “ammazzatevi” gridato a tutti e tutti. Anche a chi avrà la fortuna di ritrovarsi in mezzo ai puzzoni sudati che, dal vivo a Milano il 2 giugno, si godranno l’ennesimo spettacolo allestito dai cinque. Io conto di esserci, smetterò di lavarmi ieri. Mattia Ravanelli è riuscito, dopo tanto maledirsi, a vedersi i Faith No More dal vivo nel 2009, in un palazzetto dello sport con 74° e Just a Man. Ne è valsa mille volte la pena. Seguilo anche su Twitter e Facebook. Approfondisci Ghost Stories e il ritorno dei Coldplay Playlist: Foo Fighters Record Store Day 2014: farsi del bene https://www.facebook.com/faithnomore https://twitter.com/faithnomore http://www.fnm.com/