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FEAR FACTORY

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A parte il mezzo passo falso di “Trangression” (2005), capitato a cavallo di un momento di evidente smarrimento e demotivazione dovuto a qualche controversia giudiziaria di troppo sui diritti d'autore, non si può dire che i Fear Factory abbiano mai deluso, da quel “Soul Of A New Machine” datato 1992. In più, essere stati i creatori di uno sconvolgente quanto innovativo album (“Demanufacture”, 1995) li ha senz'altro messi costantemente a confronto con se stessi. Un confronto difficile e pesante, giacché tale capolavoro, fra l'altro, ha dato il via a un nuovo genere, il cyber death metal (da distinguersi, a parere di chi vi scrive, dall'industrial metal, meno adeso agli stilemi fondamentali del metal), in allora ben lontano dal manifestarsi con la frequenza e qualità attuale (Sybreed, Mechina, Vortech, Id:Vision, Helltrash, Neurotech). Con “Mechanize” (2010), in effetti, grazie al ritorno in squadra del chitarrista fondatore Dino Cazares e all'innesto del mostruoso batterista Gene Hoglan, i californiani hanno dato segni di risveglio e, ora, con “The Industrialist”, si può affermare che la crisi di metà anni duemila sia passata. Anche se, di nuovo, si devono registrare altri due cambiamenti nella formazione: Matt DeVries (ex-Chimaira, ex-Six Feet Under) al posto del bassista Byron Stroud e, giusto in tempo per gli imminenti tour di supporto al full-length, Mike Heller (Malignancy, System Divide) al posto di Hoglan. Con che, alla fine, a far da ponte fra passato, presente e futuro sono sempre loro due: Burton C. Bell, che continua il suo progetto parallelo degli Ascension Of The Watchers, e Cazares, che affila sempre le lame con i Divine Heresy. Non a caso, difatti, l'eterogeneo duo ha composto i brani di “The Industrialist” in casa, con l'ausilio di una drum machine e l'aiuto, per ciò, di John Sankey dei Devolved. Come i molti dei suoi predecessori “The Industrialist” è un concept-album ma, stavolta, i controversi o meglio contrapposti concetti di 'uomo' e 'macchina' sono visti non più dagli occhi di una persona ma da quelli di un robot. E, forse, questo spiega il taglio ancor più cibernetico che quest'ultima opera ha rispetto a quello delle precedenti creature. I campionamenti e gli inserti ambient assumono una veste rilevante, adesso, impregnando sino alla radice il sound devastante del combo statunitense per donargli un'assoluta visionarietà, degna dei più lisergici film di fantascienza. Le sensazioni sintetiche e le emozioni programmate sono davvero tangibili, qui, regalando a chi ascolta tre quarti d'ora abbondanti di astrazione e di alienazione dalle misere vicende dell'Uomo; calibrando, quindi, la percettività dell'ambiente terrestre con parametri del tutto automatici, matematici. Questa rotazione ad angolo piatto del centro di gravità ove far orbitare le composizioni è allora sia concettuale, sia musicale. La ritrovata sinergia mentale fra Bell e Cazares, tuttavia, fa sì che il tutto suoni, sempre e soltanto, maledettamente Fear Factory. Il marchio della band è unico nell'Universo, distinguibile fra centinaia d'altri, riconoscibile in mezzo secondo. Il meraviglioso mix fra l'assurda durezza degli spaventosi riff di chitarra e l'incredibile melodiosità dei ritornelli non ha eguali. Ma, in mezzo a così tanta certezza nel costatare che in “The Industrialist” i Fear Factory siano i... Fear Factory, trova spazio un approccio new romantic che ricorda un po', fatte le debite distinzioni fra generi così distanti, gente come per esempio gli Ultravox, che riuscivano a dare un cuore ai loro gelidi sintetizzatori. Nel presente lavoro, cioè, si perfeziona la convergenza fra l'eterea personalità di Bell e la furia scardinatrice di Cazares; come se il primo soffiasse un alito di vita autonoma fra le immote e gigantesche strutture metalliche innalzate dal secondo. Il via è una grandinata sulla collottola: “The Industrialist”, dopo l'incipit ambient à la Terminator e le orchestrazioni iniziali, è arcigna, riottosa, disarmonica, glaciale nel suo incedere marziale dettato dal tono stentoreo e aggressivo di Bell che, in questo disco, modificando leggermente il suo stile, alleggerisce il suo growling. “Recharger” è, semplicemente, il primo capolavoro di “The Industrialist”. Il mortale mid-tempo è irresistibile e stacca letteralmente la testa dal collo, Cazares affetta riff inumani da scartavetrare la pelle sino alla carne e il chorus è clamoroso, da annali del metal. Sempre viva, presente, tangibile l'essenza vitale dei microchip che vibrano a frequenze da sogno. Un ciclopico accordo iper-compresso, che disegna un muraglione immenso di suono, apre il secondo capolavoro del platter, “New Messiah”, il cui refrain rimarrà senz'altro scolpito per sempre all'interno della scatola cranica. “God Eater”, intrisa d'elettronica e sottolineata da alcune note al pianoforte da horror movie, è feroce e cattiva, e ricorda – principalmente per il modo di cantare di Bell – il modus operandi dei Fear Factory dei primi tempi. “Depraved Mind Murder”, con la sua esorbitante pesantezza e i suoi agghiaccianti rumori prodotti da sistemi artificiali, affonda nell'orrido Cosmo della non-esistenza, salvo aprirsi in occasione dell'ennesimo, felice ritornello. Il cadenzato rumore di un maglio metallico e una voce febbricitante aprono “Virus Of Faith”, che espande il territorio ove caccia la pazzesca chitarra di Cazares e che salta in aria quando Bell apre la cupa atmosfera del brano con le sue inconfondibili, irresistibilmente accattivanti cleaning vocals. “Difference Engine” pare quasi un pezzo dance, alla partenza, salvo devastarsi con un ardore di hardcoriana memoria che assorbe un break centrale dai toni addirittura aulici. La chitarra effettata di Cazares apre la poderosa “Disassemble”, dissonante all'inverosimile con il suo inconsueto chorus che rimane impresso nella mente nonostante sia davvero l'antitesi della melodiosità (escluso la parte finale, che invece assume il carattere dell'armonia tipica delle linee vocali pulite di Bell). “Religion Is Flawed Because Man Is Flawed” è un morbido intermezzo fra lo sconquasso precedente e la prima vera composizione totalmente ambient degli americani: “Human Augmentation”. In nove minuti si esplora l'immaginaria psiche di un ipotetico drone senziente, catapultando definitivamente chi ascolta fra i meandri di complicati circuiti stampati, perduto un futuro distante anni luce. E, per chi dovesse avere dei dubbi in proposito, è bene rimarcare che non si tratta di un filler per prendere tempo. Assolutamente. Proprio quest'ultima song strumentale segna indelebilmente il passo evolutivo dei Fear Factory che avviene con “The Industrialist”: la sterminata classe da essi posseduta consente di aprire le porte del tempo e di osservare, anzi ascoltare, musica che, è plausibile, farà da colonna sonora metallica ai più incredibili paesaggi di là da venire. www.fearfactory.com

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