KABUL è un anti-inno perché racconta di un'epoca divisa tra violazioni dei diritti umani e continua ricerca di leggerezza. La cassa in quattro quarti e un arrangiamento dance sottolineano in modo ironico il testo, che fa riferimenti a Martin Luther King, a Kennedy e ai conflitti in Medio Oriente, fino ad arrivare, quasi grottescamente, a riflettere sul business dell’arte e della musica e sulle sue conquiste molto più venali: "L’importante è entrare in playlist, scalare la classifica, così ti canto una storia d’amore che finisce male: io amo il capitale".
La cover è a cura di Lucrezia Testa Iannilli, fotografa e performer che utilizza come strumento di visione il corpo umano e quello animale. Espone in Italia e all'estero, collabora con istituzioni quali l’Università LUISS e il museo MACRO di Roma.
«Ho scritto Kabul da arrabbiato, quindi il testo è arrivato molto in fretta: all’inizio ho annotato sul telefono durante un viaggio in tram “bum bum bum, scalare scalare scavare”, una specie di mantra, un anti-inno dell’età del mondo che stiamo vivendo e delle sue ingiustizie e contraddizioni. L’input per il testo è nato dalla frizione tra i fatti di cronaca che leggevo in quei giorni e l’indifferente normalità che mi circondava –dichiara Francesco Sacco – quindi ho voluto mettere un testo del genere su una base quasi dance, per sottolineare l’attitudine di un occidente tardo-capitalista che si gira dall’altra parte e continua a ballare su un mondo sempre più affaticato. Poi c’è anche un elemento di critica verso l’industria della musica e dell’arte, che spesso lavora solo per autoalimentarsi senza passare veri contenuti. In fondo "Kabul" è un "La locomotiva" di Guccini travestita da brano dei Daft Punk»