La scoperta di un gruppo come i Frog Eyes può rendere anche i più idealisti tra noi seriamente dubbiosi sulla salute mentale del mercato discografico. Perché, davvero, non si capisce come possa ancora essere sconosciuto ai più un gruppo capace di sfornare un capolavoro dopo l’altro, senza mai ripetersi, rimescolando nei primi due album (The Bloody Hand e The Golden River) influenze tanto diverse come Nick Cave, Tom Waits, Violent Femmes e Pixies e arrivando spesso a soluzioni sonore originali che possono portare ad accostamenti con giganti indie odierni come Xiu Xiu e Modest Mouse. E si fatica anche a capire come i Frog Eyes possano, per l’ennesima volta, trovare l’ispirazione per fare il botto. Tears of the Valedictorian infatti ingarbuglia ulteriormente la matassa musicale. E lo fa in maniera a dir poco esaltante. Piccola parentesi per chi non conoscesse il gruppo: originari del (solito) Canada, i Frog Eyes si destreggiano più che egregiamente, dall’ ormai lontano 2002, a manipolare l’indie in forme bizzarre e convulse, costituendo una sorta di controparte, visionaria e psicotica, di gruppi come Arcade Fire e Wolf Parade, vale a dire la crema della ormai celebre scena indie rock canadese, ma anche dei possibili consanguinei sonori dei Clap Your Hands Say Yeah. E se è vero che i Frog Eyes sono stati tra i pionieri della non-scena indie canadese, va comunque rilevato l’impatto che i lavori degli Arcade Fire sembrano aver prodotto su questoTears of Valedictorian: si attenuano le tendenze più rarefatte e malinconiche che comparivano, qua e là nei dischi precedenti, e vengono invece sviluppati i ritmi sconnessi e le convulse melodie, da sempre punto di forza del gruppo guidato da Carey Mercer. E, soprattutto, sembra che sia stato messo un po’ di ordine nel caos creativo che rendeva, a tratti, The Folded Palm un po’ indigesto. Il caos è rimasto, ma è stato incasellato in una forma canzone sui generis e in crescendo frenetici dall’impatto fresco e devastante, come testimoniano Stockades e Idle Songs. Ma il punto non è questo. E tralasciamo pure bozzetti intensi come The policy merchant, The Silver Bay e amarcord alla Modest Mouse come Reform the Countryside che assieme all’angelica chitarra tintinnante di Eagle energy riescono comunque a deliziare e travolgere emotivamente. Perché il punto non è nemmeno questo. E fingiamo anche, per un attimo, di non far caso alla gioiosa orgia di suoni di Caravan Breakers, they prey on the weak and the old, coi suoi mille cambi di ritmo nascosti ed il suo incessante affastellarsi di melodie, riff, medley e intrecci di chitarre .Tralasciamo anche questa giungla sonora di sette minuti perchè il punto, ancora una volta, non è questo. Il punto è la mastodontica Bushels, un brano di dimensione metafisica in cui le note iniziali del piano sembrano librarsi in aria mentre accompagnano l’incredibile performance di Mercer, risucchiato apparentemente da un’inarrestabile maratona sonora: corre, sbraita, si appassiona, scherza, si ripete, si perde, si ritrova, mutando l’eccitazione scomposta in falsetto isterico in un attimo. Tra i continui cambi di ritmo si passa attraverso basi ritmiche a tratti spettrali, a tratti schizofreniche, e non si può fare a meno di rimanere a bocca aperta, sbalorditi, quando parte un assolo che sembra uscito da un disco dei Built to Spill che rifanno Neil Young. Bushels, con la sua potenza e il suo ardore rappresenta la Land: Horses/ Land Of A Thousand Dances/ La Mer(De) del nuovo millennio. E questa è una cosa che non capita tutti i giorni. E neanche un album del genere. www.myspace.com/frogeyes www.absolutelykosher.com/frogeyes.htm