Se fossimo portoghesi e volessimo un contributo al missaggio di qualche figura rilevante, a chi ci rivolgeremmo? A Rafael Toral, probabilmente. Così hanno fatto i Gala Drop, cioè Afonso Simões, Nelson Gomes e Tiago Miranda. Nota di cronaca; punto e a capo. Segnaliamo la cosa solo per contestualizzare in quella Lisbona questa autoproduzione; se infatti anche per Gala Drop si può – parzialmente - parlare di spazio, bisogna precisare che l'attenzione non va focalizzata sulla rarefazione dell'aria, ma sul punto di decollo, che avviene in un quarto mondo hasselliano, in un terreno di evidente melma dub. Insomma: Jon Hassell? Dub? Psych? Eno-Byrne-ismi? Quando un disco è importante non ha un'etichettatura facile, specie se chi lo ha confezionato conosce quanto te i riferimenti facili che si possono fare. Intrigante ancor di più se chi ti sta suonando in faccia tanti colori e spezie conosce pure quelli più difficili. E se Ital è un dub quasi sci-fi, la successiva Ubongo - un poliritmo che collega la giungla al cielo, l'Africa alla Kosmische Musik del ronzare di synth analogici - ci fa già capire lo spessore e l'entità dell'album. Tirare in ballo My Life In A Bush Of Ghosts è un esercizio da ragazzini mentre orecchiare l'Anas Symphonie dei Kraftwerk un po' meno. Figuriamoci se sotto a quella fai girare un intarsio di didgeridoo e batteria che puoi dire afro-funk come rock. E' Frog Scene; roba da stenderti a terra. Una tirata di crack. Ne vuoi ancora e subito e mica di certa robaccia in stile Laswell; i Gala Drop sono spaccini seri che scavano in ricette serie. C'è tanto Steve Roach, quello buono che parte da Dreamtime Returns per finire fino agli Halcyon Days in compagna di Stephen Kent e Kenneth Newby. Di più; se qualcuno già dubitasse – a ragione - della necessità d'aggiungere qualcosa a quelle splendide ricerche, al senso del magico e alla serietà da etno-musicologici, gli abili Gala Drop oppongono un bello stempero alla On-U di Adrian Sherwood. Altra scuola furba da cui attingere, un buon modo per buttarla sul trip senza banalità, per liberarsi da pesanti confronti ma anche per aprire certe porte percettive (Dabum). Come se non bastasse, a tracklist già carica e soddisfacente, una Holy Heads introduce elementi gospel come se a suonarli fossero Eno & Byrne dello scorso anno ma con la voglia di osare come ai tempi di My Life…. E ancora: a qualcuno è venuto in mente un confronto con gli Animali più trendy dell'underground? In chiusura la psych liquida in odor di down tempo di Crystals ricorda persino la batteria spezzata e tamburelli del miglior McCombs (Tortoise dove siete?). Ma soprattutto c'è Parson. Una sfida. Sherwood + progressioni kraute + gospel afro. Di più: c'è tutto il mondo di Mark Stewart, Pop Group compreso, che si trasmuta ancora in un dub astrale, con tanto di muggiti dei synth da manuale, e poi in una cavalcata tropicale. Forse il brano più riuscito dell'album. Forse quello che risente meno degli automatismi da sballo dub, l'unico elemento di pesantezza (o stagnazione) di questo Self Titled. Ma, l'avrete capito, è il pelo nell'uovo. Cercatevi il disco, piuttosto che il pelo. www.facebook.com/galadrop