Terzo disco e centro pieno per la band romagnola che, guidata dall’istrionico Andrea Gatta, ha fatto della contaminazione il suo marchio di fabbrica. Quella contaminazione che anni fa venne definita patchanka, che è contaminazione di generi musicali, linguaggi e culture. Musicalmente qui si parte dal folk (ma attenzione, il leader si esibisce con una bella scritta “fuck folk” sulla chitarra) ma con un’attitudine tipicamente punk. Il disco parte a razzo con Cinghiale matto, un folk punk dai suoni gitani, con un ottimo violino e un gran testo che si fa beffe delle facili musiche fatte solo per ballare e non far pensare (canta che ti passa, ma fallo in levare che si possa tutti quanti ballare, e vomitar canzoni intelligenti, apparire sorridenti e glitterati, dire solo sempre si, bicchieri d’acqua e non profondità, salvi dalla verità). La title track Vecchio mondo è un altro brano trascinante, guidato dai fiati, quasi un Bregovic dall'animo punk che riporta la mente ai Gogol Bordello, e con ancora un testo che colpisce dritto al cervello (mi da lo schifo questa viltà, la fattanza dell'odierna virtualità e le forme di formalità, i rampolli di federazione e l'immondizia dell'istituzione, il telegiornale e la pubblicità). Altrove le arie di provenienza balcanica si mescolano con suoni americani. Così Il figlio del pueblo è guidato da fiati e ottoni di provenienza balcanica, ma la fisarmonica ci porta tra i piemontesi Mau Mau ed i Calexico, che ritroviamo in El juego, ancora tra balcani e tex mex, con tanto di trombe mariachi e gritos, una musica bastarda dai ritmi travolgenti. Spiccano tra tutte Il fantasma di Portopalo, Calexico e Manu Chao, con un bel testo sul problema dei popoli migranti, risolto senza retorica e con molta poesia (da troppi giorni in alto mare chiuso in una stiva, con poco da mangiare, solo ma con altri 400 senza più dignità, con questa idea di libertà, vedo le luci da lontano, che mi porteranno dove ho letto sul giornale, non c'è guerra e povertà). Davvero bello, uno dei più riusciti del disco. Segue a ruota Povero diavolo, dove su ritmi reggae imbastarditi da fiati che stanno tra il soul e i balcani, i Gattamolesta ci raccontano un'altra storia di migrazioni (povero diavolo in cerca di fortuna in una terra ostile) dove però l'emigrazione diventa non solo un mezzo per sopravvivere o cercare fortuna, ma anche per trovare la libertà o quanto meno se stessi (e forse un giorno tornerai dopo aver avuto ai piedi il mondo, o forse tornerai dopo aver perduto tutto il resto, ma avrai comunque te). In questo gran giostrare di suoni e parole, sembra infine di sentire anche il De André degli inizi in Otto orangutan, per un testo che è una feroce satira contro il potere (dove un giullare si prende gioco del re), e in Meno candido, con la sua accusa, più o meno velata, a chi giudica senza conoscere, critici compresi (come fai a capire chi è un poeta o no) sull'aria di una taranta imbastardita dai suoni gitani del violino (e qui sembra quasi di sentire il De André periodo P.F.M.). Tra ballate dove il ritmo rallenta (L'uomo travolto, con il suo tempo in levare e l’aria reggae impreziosita da una bella fisarmonica), e folk punk pronti per scatenare le danze nei live (Fragili e maledetti con i fiati sempre in prima linea) i Gattamolesta ci parlano di un vecchio mondo, una società che sta per ripiombare nel far west, e che volente o nolente, sta per finire, travolto dall'imbarbarimento e dalle crisi economiche, con la speranza che il futuro ci riservi qualcosa di meglio. www.gattamolesta.it www.facebook.com/GATTAMOLESTA