HAROLD BUDD La musica suonata da Harold Budd possiede una qualità indefinibilè ed al tempo stesso assoluta, un elemento di grazia totale ed incontaminabile che emana verità senza motivazioni necessarie o sufficienti, e permea il cuore di luce. Come le liriche asciutte e stupende di Costantino Kavafis, o certe pagine oniriche di Jane Bowles, o le sequenze più estatiche e sospese girate da Federico Fellini, i fraseggi pianistici di Budd cingono la bellezza d'una luminosità remota, ne onorano spontaneamente il significato più puro e completo. Sono molti anni che Harold avanza tranquillo nel suo cammino: "Pavillion of Dreams", "The Pearl", "Abandoned Cities", "Lovely Thunder" e "The White Arcades" son solo alcune delle mete che ha sinora visitato con l'essenziale bagaglio d'intelligenza e garbo. Austero e sensibile, com'è proprio dei grandi solitari, Harod Budd connota di estrema dignità la figura dell'individuo invaghito della vita, ed il suo nuovo album "Luxa" ne è prova bella sottile. Diviso in quattro sezioni ideali, dai titoli misteriosi e suggestivi, "Luxa" collega pitture notturne, come "Agnes Martin" e "Serge Poliakoff", a brevi interludi volatili di melanconia ("Porphyry"), ed effonde serenità primaverile dalle proporzioni di "Feral", "Paul Mc Carthy"; "Grace". Tutta l'opera si articola pacificamente in tocchi limpidi soffusi e chiaroscuri mareiformi, porgendosi all'ascolto come una teoria di tele dalla prima delle quali i colori appena deposti possano evaporare, condensarsi in voli gentili, indi tornare in slowmotion a lambirne nebulizzati la successiva D'incanto.