Sebbene il fervente talento di Volker Bertelmann, in arte Hauschka, fosse innegabile sin dagli esordi – già dieci anni fa – solo in tempi più recenti ne è arrivata la decisiva conferma (“Salon Des Amateurs”) presso un circuito di ascoltatori abbastanza popoloso. È un nome che si attende al varco, nella speranza di una prova che lo consacri, un traguardo che il collega Nils Frahm ha già meritevolmente raggiunto e per il quale Bertelmann possiede tutte le credenziali. Quali punti forti nella sua proposta? Anzitutto uno stile che deve poco o nulla ai grandi maestri del Novecento, sulla cui scorta hanno trovato fortuna molti altri esponenti della modern classical; al limite una costante, sottintesa riconoscenza per l'intuizione del piano preparato, la cui ricchezza – come sempre nel caso di Cage – è nell'inesauribile potenziale di variazioni. Hauschka non lascia però spazio all'indeterminatezza, al contrario si immerge sempre più in un laborioso processo di looping e sovraincisioni, trasformando “Abandoned City” in un ineccepibile meccanismo a orologeria, con ingranaggi ben oliati e attentamente sincronizzati. Ed è questo, forse, il secondo tratto più distintivo – e assieme controverso – della musica di Bertelmann, che sempre più si avvicina all'esercizio di bravura o, peggio, alla curiosità per nerd di YouTube. Il dinamismo delle sue geometrie solide sfocia ormai in una minimal techno analogica, non più solamente calcolata ma finanche ingessata: l'applicazione dei diversi oggetti e materiali alle corde del pianoforte non ha più il fascino giocoso di una volta, bensì diventa un mero strumento per produrre singole particelle sonore di pattern pressoché immutabili. Una struttura già di per sé anaffettiva alla quale, talvolta, vengono applicati refrain netti alla Kraftwerk (“Agdam”, “Sanzhi Pod City”) che non lasciano più dubbi sul processo di “automazione” che la musica di Hauschka sta subendo – in particolare “Thames Town” soffre di una linearità e una pedanteria quasi dilettantesche. A stemperare l'atmosfera concorrono soltanto dei vaporosi delay, che alla lontana richiamano il mood rarefatto dei dropped pianos di Tim Hecker (“Elizabeth Bay”), col risultato però di coprire eccessivamente l'area acustica. www.hauschka-net.de https://www.facebook.com/HauschkaMusic