Confesso di aver provato un qualche brivido, un fremito d’estasi, quasi, lungamente sopito che ha percorso la mia spina dorsale. Come posso, dunque, razionalmente descrivere e parlare di questo Cobra Verde? È quasi offensivo lasciare che le parole cerchino di trovare un significato e un ordine, una qualche struttura capace di lasciar trasparire un giudizio. È un insulto relegare questa release a un voto, a un numero. Lo schematico susseguirsi delle tracce è inteso a tratteggiare, a vivificare persino, quegli aspetti oscuri e perversi della mente umana. È la più sincera visione del caos, della metamorfosi e della stasi psichico umano. Piuttosto che la razionalità, è bene che si lasci l’animo in balia delle proprie emozioni, che queste lo cullino e lo trasportino verso un’illogica e sincera visione d’insieme.
L’ascoltatore deve approcciarsi in tal modo a questo full-lenght, deve dargli tempo e comprensione. L’intero lavoro è alimentato da un insondabile esprit de finesse, da una totale e pragmatica conoscenza esistenziale dei moti dell’animo umano. Non bisogna permettersi né di saltare un minimo episodio, né di vedere l’insieme come un affresco di brutale violenza sul quale scapellare in maniera disordinata. Cobra Verde, infatti, è una piccola gemma, un’opera d’arte da cullare e custodire gelosamente, soprattutto in tempi difficili come quelli che sta attraversando il nostro Paese, sia da un punto di vista prettamente musicale che da un punto di vista puramente sociologico.
È l’intera struttura, la complessità e la labirintica architettura del disco a travolgere l’ascoltatore. Gli Hideous Divinity, infatti, plasmano con cura maniacale una creatura multiforme e cangiante. Rispetto al primo Obeisance Rising notiamo, innanzitutto, un minor numero di tracce e un minor minutaggio. Tuttavia, è proprio tale complessità sopracitata a prendersi la scena, andando a creare composizioni mai completamente statiche, capaci di rinnovarsi ad ogni ascolto e, soprattutto, di non risultare mai banali. Il gruppo capitolino è animato da una maggior coscienza nei propri mezzi, anche se la maggior parte di loro vantano un passato glorioso in gruppi come Hour of Penance. Le canzoni risultano maggiormente inquadrate, benché animate da continui mutamenti, fuggevoli da qualsiasi equilibrio razionale e armonico, che le rendono, contemporaneamente, più articolate e possenti degli episodi della loro prima uscita.
Non vi è una traccia in particolare che colpisca l’ascoltatore. A scopo di risultare pedante e noioso, voglio ripetermi: è l’insieme, questo spettacoloso e immaginifico, malsano e perverso viaggio tra atmosfere di putrefazione e polveri sulfuree, la vera essenza di questo Cobra Verde. Se poi volessimo parlare di qualche traccia in particolare, In My Land I Was a Snake è, sicuramente, uno dei capisaldi dell’intero lavoro. La traccia sembra avere una vita propria, con un inizio sommesso di onde lontane che mugghiano contro la spiaggia, prima che le chitarre comincino a tessere il proprio ordito. Il riff di apertura è semplicemente magnifico: cresce, avvolge e accompagna sapientemente l’ascoltatore mentre, in sottofondo, possiamo udire la sotto-trama di una melodia lontana, dissonante con il resto, eppure tremendamente evocativa e superna. La canzone muta e cambia, fino a svanire lentamente. Lo spaccato centrale è come un invito a un desco riccamente imbandito e capace di soddisfare qualsiasi appetito, forte di un perfetto e raro equilibrio tra armonie e dissonanze, capace di divincolarsi tra mid-tempo, ripartenze e ritmiche sincopatiche. Le note arpeggiate della titletrack, Cobra Verde, inframmezzate dalla sfuriata delle chitarre distorte, offrono all’ascoltatore una visione bipolare e schizofrenica del genio creativo. Una paranoica sensazione di nevrotica oppressione ci avvolge, trascinandoci in un susseguirsi di riff di distorte armonie di monolitica e primeva bellezza. Emerge un lato selvaggio, assoluto e tremendo nel cantato di Enrico Di Lorenzo, capace di alternare ottimamente il growl allo scream e, pure, di concederci un breve intermezzo recitato. I pattern ritmici intessuti dal basso di Franceschini e dalla batteria di Galati sono semplicemente meravigliosi. La violenza, inoltre, è capace di generare uno stupendo tecnicismo prezioso e curato, come possiamo notare in una canzone come Sinister and Demented. I due soli sono un connubio perfetto d’intrecci melodici e tecnica, qualcosa che raramente si è portati a sentire. Non da meno, inoltre, risulta la sezione strumentale di The Alonest of the Alone. Infine, la stupenda Andjinakou, una canzone che rallenta l’intera opera, evocativa e tremenda, e che, come un cerchio, chiude l’intero album così come era incominciato.
Il giudizio, dunque, non può che essere dei più entusiasti benché quasi mai, come in questo caso, mi sia sentito così poco in grado di darne uno. Quando qualcosa riesce ad addentrarsi così tanto nell’animo, a penetrare così in profondità da rivelare gli oscuri pozzi che lo inabitano, essa è parimenti eccitazione e paura, bellezza e orrore. Questo equilibrio dicotomico è ciò che distingue ciò che è soggettivamente bello da ciò che lo è a un livello oggettivo, incidendo maggiormente nella sua durata nel tempo. Cobra Verde è, insomma, un disco di grandissimo livello che, spero, possa avere la visibilità e la gloria che merita.