Robin Hitchcock "Storefront Hitchcock" Quando un paio d'anni fa, ascoltammo il concerto di Robyn Hitchcock davanti ad un pubblico non foltissimo quale era quello del Festival dell'Unità di Firenze, rimanemmo stupefatti da come le vibrazioni di un set poverissimo (suonava da solo) potessero entrare così tanto nella pelle di noi devoti ascoltatori. Era appena uscito "Moss Elixir" e di lì a poco Jonathan Demme (non nuovo a queste imprese; il regista de "Il Silenzio Degli Innocenti" e "Philadelphia", aveva pure diretto nel '94 "Stop Making Sense" ed un video bellissimo, quattro anni fà con Neil Young - avrebbe fatto una proposta diretta a Robyn: quella di girare un film su un suo concerto. "Un film dal vivo" e la cosa stupenda di tutto questo è che Jonathan registra sempre in presa diretta, non gli piace la sincronizzazione del doppiaggio. Entrambi vogliamo essere spontanei, senza vincoli del "professionismo". Non sappiamo quale sia, per ora, l'effetto cinematogratico di un incontro del genere (e chissa quando e come la pellicola potra girare dalle nostre parti), ma possiamo dirvi con sufficiente gioia del suo complemento sonoro: "Storefront Hitchcock", nella novità della strumentazione impiegata, fotografa il fool dell'acid-pop davvero più giovane di ieri, ancora immerso in uno splendido fervore creativo ed espressivo, senza che il tempo trascorso (e oramai sono vent'anni) sia riuscito a piegare di una virgola energie vocali e humour. Affidate alle cure del nostro, di Tim Keegan e degli interventi al violino di Deni Bonet le canzoni prescelte risplendono nella loro essenza e mettono allo scoperto i nervi di un songwriting qui sempre eccezionale, nonostante la scelta dei titoli sia stata piuttosto trasversale ed alternativa: i ricordi egiziani di "I'm Only You" e "Freeze", "The Yip Song", una "Glass Hotel" particolarmente spettrale e vibrante, "Queen Elizabeth", nella sua migliore incarnazione possibile (ma non inclusa nel film), la rara "I Someting You", la recente "Alright, Yeah" ed un pugno di nuove scarne proposte, con una propensione verso territori quasi roots. Si tratta di "Where Do You Go When You Die", una specie di Diddley's song dalle aperture blues-allucinatorie e dalla struttura testuale perfetta, del crepuscolo dilaniato di "No, I Don't Remember Guildford", dell'ironicamente beatlesiana "1974", dell'esplosione catartica della già classica "Let's Go Thundering" raccordate dalla sua cover preferita, "The Wind Cries Mary". Jonathan Dem garantisce per lui.