Sarà la metedrinica aura che esala la Death Valley o forse il brivido freak del vento ascensionale che risale il Big Sur, a spingere la band californiana degli Howlin Rain a non muovere un passo, a mantenere e conservare lo stato di cose così come il tempo l’ha fermato. In barba all’upgrade stilistico adottato da moltissime bands in preda a trasfigurazioni innovative, i nostri californiani sono e rimangono lì, accampati sugli “heaven fields” dei magnifici ’70, in quella dreamland che Fernanda Pivano definì “mirabolante terra di sacra utopia dove anche Dio faceva i joint ”. Giunta al secondo album, la band – progetto differito del cantante Ethan Miller frontmen degli sperimentali Comets On Fire – regala puri minuti di rock vintage d’alto livello, grasso, tenace, dolciastro e balsamico arricchito da sano e proteinico Psichedelic Southern, lasciando a copiose bordate di Hammond e chitarrismi in wa-wa piena scena per espletare quello che oggi viene definito – come punto di riferimento timbrico – il “Woodstock sound”. Ascoltarlo serrando le palpebre, si avverte il vento in faccia e il sole accecante della Frisco delle lunghe zazzere, tutti i pizzicorii dell’acid-folk e della Weast Coast che rimettono in circolo – mai come in questo caso aggettivo più adatto – “carmico” le sonic pills dei Creedence Clearwater Revival, Steppenwolf, il Frampton degli Humble Pie, Free e Crazy Horse; un dettagliato manualetto sonoro fatto di suoni sgargianti e colori elettrici degni del più alto grado di Thc. Il ruggito roco di Miller domina – assolto a pieno titolo per una troppo pericolosa attitudine vocale sconfinante in quel di Fogerty dei CCR – e cavalca la Leslie vorticante dell’Hammond che in “Nomads e Lord Have Mercy” Joel Robinow – nuovo membro della band – letteralmente sfibra in un formidabile hard-blues bolgie. Vive in questo bel prodotto tutto il campionario Seventies impenitente e fulgido (Grateful Dead, Grand Funk Railroad Allman Brothers ecc.). “Requiem” e “El Rey”, timidamente jazzy, sono forse gli unici due episodi che rimangono un po’ statici, in disparte rispetto alla “bolgia santa” che scorre altrove, ma sono sufficientemente prodighi a scaldare e freddare il motore trainante del gruppo. La sezione ritmica che rimane sempre in seconda battuta rispetto al suono totale, squadra geometricamente e con buoni controtempo l’hard R’n’b di “Dancer at the end of time”, l’hard blues funkeggiante di “Goodbye Ruby” e combatte complice un maelstrom chitarristico abrasivo, selvaggio, “sudista” impareggiabile, che toglie il fiato a chi in quegli steccati sconnessi dei seventies ci appese un pezzo di anima e un ritaglio di cuore. “Riverboat” dà la mazzata finale con il suo farewell stipato di folk che prende fuoco – nel suo apice - come il sole di mezzogiorno al centro del Mojave Desert. Un disco di memorie? Una retrospettiva di vecchie glorie? Nulla di tutto questo, ma una formula intatta, che miracolosamente pare senza tempo. Gli Howlin Rain se ne sono invaghiti, e se il tempo sarà galantuomo, li troveremo ancora lì a cantare alla luna, a rincorrere – tra suoni della pace e distorsori bollenti – gli spiritelli freak dei loro Maestri, nostri eroi. www.myspace.com/howlinrain