HUGH DAVIES Warming Up with the Iceman La capacità di giustapporre ritmi asimmetrici e passaggi dilatati, di ammorbidire suoni inizialmente metattici per ottenere effetti onirici e squisitamente ambientati. L'arte detta texture informe ma non per questo priva di senso. Il gusto dell'ossessione per i suoni, sviscerati ed esplorati in tutte le loro pieghe: dal sommesso al pungente, dal fortissimo al pianissimo. Sono questi alcuni degli aspetti che più colpiscono nel nuovo album di Hugh Davies ed in tutta la sua opera di compositore, esecutore ed inventore di strumenti. Già assistente di Stockhausen negli anni Sessanta e poi al fianco di Derek Bailey, Evan Parker, Peter Brötzmann e Han Bennink, da più di trent'anni il musicista inglese costruisce una serie di bizzarri strumenti e marchingegni che poi utilizza per dar vita a composizioni ed improvvisazioni ricche d'incanto. Lo stesso Davies afferma che ci vorrebbe un saggio dettagliato per spiegare il modo in cui i suoi strumenti sono costruiti e suonati: si tratta prevalentemente di mini-circuiti elettrici, fili metallici, piccoli oggetti amplificati tramite microfoni a contatto, che rispondono ai nomi di Multishozyg, Shozyg, My Spring Collection, Porcupine e che per mano di Davies danno vita a suoni tanto alieni quanto pungenti. L'album affianca composizioni risalenti al 1965 e al 1974, fatte di densissime stratificazioni materiche, a brani più recenti come Lunar Day, improvvisazione dall'effetto claustrofobico, una sorta di Bertoia più tormentato. Il trait d'union tra i vari brani, ognuno di natura diversa, sta tutto nella capacità di Davies di entrare dentro ad ogni tipo di suono, sia esso cristallino o pastoso, frammentario o continuo, e di portarlo alle estreme conseguenze sventrandolo fino in fondo tramite torsioni e piegamenti. Un album esemplare nella sua sorprendente sensibilità per la creazione e l'organizzazione dei materiali sonori.