JOHN FRUSCIANTE/To Record Only Water For Ten Days E' un lunedi mattina di aria densa e umida, a Milano, e io scendo il viale dedicato all'ammiraglio Vittor Pisani lasciandomi alle spalle il mostro bianco della stazione. Sono qui perché mi è stato combinato un appuntamento con il chitarrista John Frusciante, eroe semi-eponimo del mio primo, tardoadolescenziale romanzo. L'appuntamento è stato preceduto dall'invio di una copia del nuovo album solista di John, intenso e struggente e battezzato To Record Only Water For Ten Days. Erano un po' d'anni che desideravo incontrarlo, per la verità più come chitarrista e uomo che come eroe semi-eponimo, e finalmente l'occasione è arrivata. Mi chiedo se devo essere brillante o dimesso, nello scambiare quel po' di chiacchiere che gli impegni di John ci consentiranno di scambiare. Traverso via Boskovich e subito mi sento in colpa per i retropensieri che m'assediano il cuore. In fondo - mi dico - sto andando a conoscere il signor Frusciante. Ammirarlo, lo ammiro. Simpatia, ne ispira parecchia, e se piace pensare che nella vita i cerchi sono destinati a chiudersi, ci si può perfino rassicurare all'idea che ormai è stabilmente rientrato nel gruppo. Dovrebbe essere un momento semplice e bello, mi dico, non puntinato di pensieri tecnico-scientifici tipo i dubbi sul funzionamento del registratore portatile. A un tratto credo di capire che non è l'imminenza dell'incontro a mettermi ansia e prurito, ma il passeggiare schivo dei milanesi. Da vero militante omeopatico, prendo un caffè in un bar da insalate, e subito l'agitazione svanisce, come succhiata via dalla tazzina. Quando è il momento entro nella hall del grande albergo. Sono un giornalista, dico senza scoppiare a ridere. Ho un appuntamento col signor Frusciante. E' di statura media e passo vellutato, perlomeno sulla moquette. Si è tagliato la barba da afghano che sfoggiava nei video dei singoli di Californication, e anche i capelli sono corti, con l'unico ornamento d'una frangetta che prende metà della fronte. Un poco provato, forse, ma non sono il medico di Frusciante né la madre, per cui non sto a fare troppe domande sul suo stato di salute. Parliamo del disco, invece. Subito gli chiedo della differente idea di potenza che anima questo album rispetto alle tracce, più rumorose e levigate, dei Red Hot. «E' un'esperienza molto diversa», inizia a raccontare con voce semidolente «quella di registrare in quattro in grandi studi da quella di un luogo confortevole in cui fai praticamente tutto da solo. Ed è proprio una differente parte di spazio, quella cui cerco di dare voce in questo album, rispetto al tipo di forme e di spazio rappresentato con i Peppers». Dice proprio così, different kind of shapes and space. Cerco di non indugiare troppo con lo sguardo sui tatuaggi che gli appesantiscono le braccia, mentre spiega di come è stata un'esperienza adatta quella di confrontarsi, dopo Niandra Lades del '94, con il silenzio d'una casa e il desiderio di non suonare soltanto la chitarra. D.- In questo disco canti, gli dico. E la tua voce evoca sensazioni molto diverse da quella di Anthony. Non avrebbe senso, gli domando, pensarti come voce e chitarra di una band parallela ai Red Hot? R. - «Potrebbe anche darsi», risponde. «Per ora lavoro con il mio amico Josh, che a differenza di me è molto forte con le keyboards. Vedi» mi dice rispondendo alla domanda che non ho ancora avuto il coraggio di porgli «quando me ne sono andato dal gruppo, non era perché avessi qualcosa da rimproverare ad Anthony, Flea e Chad». Dice così, e stira le braccia in avanti, lo sguardo opaco e sognante da giovane guru del mondo occidentale. «E' che ancora non avevo chiara la questione delle dimensioni. Non avevo consapevolezza. Voglio dire che ero proprio stanco», ricorda John. «Mi affaticavano le gag sul palco, fare funny faces e abbassarmi i pantaloni. Pensavo ancora al mondo come a un mondo di tre dimensioni». D. - Parlami di questa faccenda delle dimensioni. R. - «Prendi Fallout, o un'altra a caso delle canzoni del disco. Io ora so che, in qualunque momento della mia vita, quando suonerò questa canzone affioreranno nella mia testa gli stessi colori e le stesse sensazioni che ho provato incidendola Succederà a prescindere da dove mi troverò, capisci?». D. - Capisco? R. - «Prima mica lo sapevo», mi dice sorridendo. «E pensare che ero quasi morto». Indugia un attimo brevissimo. «Il fatto è che gli artisti creano spazio», riprende. «Spazio nuovo, che prima non c'era. Gli uomini che si muovono lungo straight lines, invece, lavorano tutta la vita ma non creano niente. Lo spazio nuovo creato dagli artisti con la musica, le parole e le immagini in questo mondo di tre dimensioni aggiunge extra movement nel mondo a quattro dimensioni», argomenta John, che adesso pare lieto e sicuro, come una specie di missionario ottocentesco intento a spiegare ai Bantù il concetto di Santissima Trinità. «Il mondo a quattro dimensioni», mi dico sorpreso per non averci mai pensato prima «Pesissimo». A questo punto John ha introdotto il concetto di mondo a cinque dimensioni. Il concetto di extra movement quadridimensionale che tanto m'aveva abbagliato non sarebbe altro che una pallida imitazione, una specie di omaggio, a una lealtà ulteriore. «Il mondo delle cinque dimensioni», dice John «è il posto in cui tutto è movimento. Movimento perpetuo», dice, e la prospettiva pare sorridergli. D. - Da quando è che sai queste cose? domando sforzandomi di non apparire una specie di investigatore della psiche. R. - «Mah. Certi lampi, certe sinapsi, ce le ho avute fin da piccolo. Ricordo che un giorno - avrò avuto più o meno 7 anni - stavo camminando lungo una strada e, a un tratto, mi è apparsa chiarissima l'immagine di come sarei diventato a 23 anni. In tempi più recenti, ho avuto chiaro in testa come avrebbe suonato l'album dei Peppers che ancora non avevamo inciso». D. - Parli di Californication? R. - «Sì. Ancora non avevamo suonato insieme i pezzi nuovi, e io, in un attimo ho saputo come sarebbe stato il drumming di Chad, come avrebbe suonato su disco il basso di Flea e il resto». D. - Vedi il futuro, dico. R. - «Mi capita», dice lui. D. - Vedi anche la fine? R. - «No, la fine no. Ma vedo la mia prossima vita». D. - Nascerai di nuovo? R. - «Nasceremo tutti di nuovo. E se riusciamo a creare spazio e movimento in questa vita, nasceremo in un mondo un poco migliore». Abbiamo chiacchierato ancora un poco. Ma io è così che lo ricorderò, mentre mi sorride di sotto in su raccontandomi la sua verità, la sua idea di salvezza per il mondo. Io ve l'ho raccontata perché, come tutte le verità, non è fatta per restare segreta.