Credo che quello che unisca profondamente questi incredibili artisti sia, oltre ad essere ampiamente fuori di melone e l’ovvia stima reciproca, l’affinità e la voglia se non addirittura la necessità di proporre musica senza davvero alcun tipo o sorta di prevaricazione mentale, il tutto all’insegna della piena libertà di espressione artistica, cosa del resto ben evidente se si guarda la carriera di Keiji Haino, ma lo stesso vale per i Sumac. Sembra un’ovvietà, ma spesso lo si dice riferendosi ad un disco o a band un po’ a caso, come frase fatta, ma in questo caso lo è per davvero. Ciò lo si evince, ed è facile da cogliere chiaramente, dalla modalità di composizione, on stage, così de botto si potrebbe dire, in modo da far cogliere la spontaneità del lavoro e questo aspetto è assolutamente lampante ed alla luce del sole.
Altro obiettivo è sicuramente quello di non dare punti di riferimento e destrutturare la forma canzone: non esistono mai veri e propri brani canonici, ritornelli, strofe, ma nemmeno intro o ponti da queste parti non si sa davvero cosa siano; il risultato sono delle lunghe jam che dipingono quadri astratti spaziali e apocalittici, noise cacofonico alienante dove perfino il silenzio è un rumore, improvvisazione tendente al free jazz, e sperimentalismo estremo, sorretto dagli svarioni delle chitarre e dagli effetti di Aaron Turner, ma soprattutto dell’artista del Sol Levante, squarciate ogni tanto dalle grida scomposte dello stesso Keiji Haino o da quelle più grevi del leader dei Sumac, arginate a tratti, si fa per dire, dal potentissimo basso tuonante di Brian Cook e dal drumming fantasioso di Nick Yacyshyn, ma la sezione ritmica per ovvie ragioni in questo ensemble non è praticamente mai protagonista per definizione.