Compagni di avventure negli anni ruggenti della 4AD, Simon Raymonde, bassista e multistrumentista, con Robin Guthrie, di corredo a Liz Fraser, nei Cocteau Twins, e Richard Thomas (mente e batteria dei Dif Juz, e brevemente anche nei Jesus And Mary Chain), da tempo scomparsi dai radar della musica rock, varano il progetto-evento Lost Horizons per un primo “Ojala”.
Il parallelo con la band mutante e “promozionale” dei This Mortal Coil del patron Ivo Watts-Russell, di trenta e passa anni prima, sulle prime nasce spontaneo: di nuovo uno stuolo di vocalist, di nuovo pescati dal roster di riferimento (stavolta la Bella Union di Raymonde). Ci sono però differenze che fanno pari e patta. Attecchendo sulle cover, la sigla di Watts-Russell varava ufficialmente la stagione dell’avanguardia noise-dream-pop. Nel 2017, due dei veterani di quella stagione arrischiano invece composizioni di proprio pugno, per ripiegare su una pulizia salottiera ormai dimentica dell’innovazione, ottenendo comunque una lussuosa mise-en-place commerciale.
Il basso dub di Raymonde fa bella mostra qua e là, da “Amber Sky” al r’n’b orientaleggiante di “Asphyxia”, la batteria di Thomas suona talvolta esotica come nei primigeni Dif Juz (mentre nel cocktail folk-pop “The Place We’ve Been” fa da accompagnamento diligente). Ma ad animare le canzoni ci pensano quasi sempre i cantanti. Beth Cannon imita con tutte le forze Kate Bush in “Bones”, Gemma Dunleavy fa il verso proprio alla Fraser in “Give Your Heart Away”, Marissa Nadler s’illanguidisce in senso Lana Del Rey per “Winter’s Approaching”.
A distinguersi davvero è comunque Ghostpoet nel soul pianistico di “Reckless”, mentre Ed Riman compie un più genuino rimando al sound dell’etichetta storica con i sette minuti di “The Engine”, cullante e sognante alla Kozelek. Il cuore del disco è comunque emotivo, con l’acustica e crepuscolare “She Led Me Away” e il quasi-salmo di “Frenzy, Fear” (per non parlare della chiusa solo pianistica, “Stampede”).