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LOUIS PHILIPPE

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LOUIS PHILIPPE A Kiss In The Funhouse (Le Grand Magistery) Premessa 1: Jim O’Rourke, a parte gli inizi con gli Illusion of Safety, incide lavori di assoluto rilievo almeno dal 1992, a partire dal Disengage per la Staalplaat: com’è che le interviste con lui sui giornali “che contano” hanno cominciato ad apparire soltanto a seguito della svolta “pop” di Camoufleur, e in coincidenza con la pubblicazione su un’etichetta, forse non una major, ma neanche trascurabile come la Domino? Premessa 2: Sarebbe interessante andare a vedere, tra le collezioni di quanti si sono sbrodolati in lodi ai Beach Boys, a Bacharach e a Van Dyke Parks nel recensire Eureka, se e da quanto tempo hanno in casa dischi dei suddetti artisti (non valgono i tribute-album). Premessa 3: Com’è che i suddetti critici, pronti a esaltarsi per l’album pop di O’Rourke e per le svenevolezze rétro-lounge di Pizzicato Five, Stereo Total e compagnia, non si sono mai occupati, né si premurano di occuparsi ora, di squisiti esploratori dei tesori del pop attivi da un decennio prima come Louis Philippe, Steve Beresford (con Melody Four & Kazuko Hohki), Dave Stewart & Barbara Gaskin, Janet Sherbourne & Mark Lockett (e, ancor da prima, di Slap Happy e Rundgren)? C’è sempre stato, e specialmente da noi, un pregiudizio intellettualistico verso la forma-canzone, e in generale, storicamente verso la “semplicità” (la “maledizione” di Darmstadt che, pur incrinata da Feldman e poi dai minimalisti americani e inglesi, perdura tutt’ora negli ambienti accademici). René Clair poteva forse essere all’epoca un pò reazionario nel dirlo, ma come non ripensare oggi alla sua sarcastica notazione: “L’avanguardia non cambia mai”? Qualcuno ci dovrebbe spiegare perché il ripercorrere (per di più in maniera a dir poco maldestra) gli insegnamenti di 30, 40 o 50 anni fa abbia fatto esaltare dalla stampa nazionale l’ultimo cd degli Starfuckers come un’opera “di avanguardia” nel rock; i cd al 90% tutti uguali sfornati a ritmo (davvero) industriale dalla Staalplaat o (in misura minore) dalla Touch debbano godere di un’aura di rispetto della quale le canzoni degli autori sopra citati raramente hanno goduto (non inganni l’attuale esaltazione dei gruppi neo-lounge, attuata con un gusto trash che lascia poco spazio a valutazioni critiche del periodo). È in realtà del tutto ovvio che i “margini” di originalità rimasti in ogni genere si sono ormai assottigliati fino forse a scomparire del tutto; ma, a parte questo discorso, è sempre stato ovvio che ogni atto d’avanguardia non nasce dal vuoto assoluto, ma opera a partire da una situazione precedente (anche solo per negarla); e che ogni genere (canzone melodica e avanguardia rumorista comprese) ha sempre avuto al suo interno svolte innovative e ripetizione/rielaborazione di novità ormai acquisite. È stato così piuttosto comico vedere che in certi ambienti la virata pop di O’Rourke è stata presa quasi come un tradimento, quando in ogni caso i precedenti dischi dei Gastr del Sol non erano mai suonati come originali, ma come dei pastiche di cose già udite (e in ciò stava in effetti il loro fascino). Sarebbe stata la cosa più facile per lui imbastire un altro album di chitarra preparata, o di campionamenti “concreti” imitando il suo idolo Luc Ferrari, e giustamente la sfida più stimolante con cui confrontarsi per un musicista in continua ricerca come lui è stata un album pop. Il perché comincia a spiegarcelo Philippe (da un’intervista su Musiche 18/1997; sulla prima parte della sua carriera, vedi anche Musiche 13/1993): “Per me la forma canzone del pop è la chiave di volta, in virtù dell’idea di condensare in un brevissimo arco di tempo – tre minuti, tre e cinquanta, cinque al massimo – una grande varietà di invenzioni melodiche, ritmiche e di ogni tipo, in forma molto diretta, immediata. Le canzoni pop sono fatte tutte alla stessa maniera: introduzione, strofa, strofa, ritornello, strofa, ritornello, middle eight, forse un’altra strofa, ritornello e coda. È un pò come nella forma sonata, oppure nella sinfonia secondo Sibelius (in cui le prime cinque note determinano tutto quello che verrà dopo), ma in modo più umile, perché la forma canzone è imparentata con la semplicità, l’accessibilità e cose del genere; ma quanto ci si può giocare! Tutte le regole sono già date, fin dagli anni Venti, eppure se si incomincia a giocare con esse anziché accettare gli schemi armonici e melodici, si capisce che ci sono tantissime possibilità, perché pochissimi lo hanno fatto davvero.” Man mano che lo si approfondisce, tuttavia l’argomento pop comincia a rivelarsi una matassa inestricabile: una melodia di poche note, strutturalmente elementare e per nulla interessante all’analisi, e parole banali (indimenticabile Fanny Ardant che in un film di Truffaut diceva, “le parole delle canzoni d’amore, più sono stupide e più sono vere”) possono comunicare una profonda emozione e scolpirsi per sempre nella nostra memoria. Basta “solo” questo a fare una grande canzone, gli arrangiamenti intervengono a un secondo livello. Continua Philippe: “Per definizione si dovrebbe poter suonare su un pianoforte qualunque buona canzone pop senza essere un bravo pianista. (…) È per questo che tante canzoni pop sono meglio dei lieder: perché vanno dritte all’essenziale, invece che menarsela con le infiorettature sul pianoforte. Onestamente, persino Richard Strauss ha scritto certi lieder che sono proprio cacca, oltre ad averne composti di magnifici. Le melodie sono straordinarie, le parti di pianoforte interessanti e ben scritte ma, mi dispiace, non è una bella canzone!”. È esattamente qui che spesso casca l’asino, intendendo quando i musicisti “sperimentali” si cimentano con la canzone: occorre un “vero sentire”, una sensibilità senza la quale il tutto rivelerà la sua matrice di esercizio intellettualistico. È in questo senso che per esempio la Björk del terzo album appare troppo, mentre la pur sottovalutata Madonna rimane troppo poco: il miracolo di Pet Sounds (e poi di certi brani di Smiley Smile e 20/20) era che la sfrenata inventiva sperimentale di Brian Wilson poteva applicarsi a una base solida quanto l’ossatura delle sue canzoni. Un miracolo apprezzabile di equilibrio, il che chiaramente non impedisce che si possa apprezzare anche l’andare oltre: la Fall Breaks And Back Into Winter di Smiley Smile sembra una prefigurazione dei Residents e non certo più una “bella canzone”; come la Sleep di Philippe/Brodrick – un raro brano uscito solo in Giappone – è un geniale pastiche stilistico di Stravinskji, Beefheart, Ellington, Beatles, Bolan (e altri), ma forse fuori tempo massimo coi suoi nove minuti (per non parlare della vera e propria musica concreta di Tout arrive à qui s’en va per il disco di Laïla Amezian su Siesta). E però, spesso, può essere non meno apprezzabile rimanere dentro, e anche “indietro”; qualche tempo fa, ci è capitato di incontrare Bill Laswell, e di citargli un brano di una tremenda stroncatura di un suo disco apparsa sulla rivista Wire, che accusava di eccessiva morbidezza il risultato di uno degli incontri multi-genere e multi-etnici di musicisti che ama organizzare nei suoi dischi. “Non voleva essere un aggressivo disco sperimentale”, fu la sua disarmante replica. Non c’è bisogno, evidentemente, di timbrare il cartellino e mostrare le credenziali di sperimentatore ogni volta. È quello che molti non hanno còlto dei Melody Four, ad esempio: raccontava Beresford in un bellissimo aneddoto, che dopo un loro concerto il poeta sonoro Charles Amirkhanian lo interrogò sul loro approccio “decostruttivo” alle canzoni: “Non ha a che fare con un approccio decostruttivo” – rispose Beresford – ha a che fare col fatto che ci piacciono quelle canzoni.” Non c’è bisogno di false nobilitazioni (come il mondo del jazz che usa il tema iniziale a pretesto per le improvvisazioni, o Sciarrino che rielabora Stardust in un mattone tremendo): ci si può anche lasciare andare a una bella melodia, o a un sentimento di nostalgia per un’innocenza perduta (come nel piacere infantile del rétro-lounge nell’assaporare ancora una volta i già noti cliché). Per tutto ciò e per le premesse in esergo, è quantomeno doveroso mettere una tantum O’Rourke in seconda posizione (ce ne occuperemo nella seconda parte di questo excursus sul pop), e iniziare con Louis Philippe, il più brillante e misconosciuto (ecco un nome che non è mai stato recensito da una rivista che si vanta di essere a 360 gradi come Wire) autore-arrangiatore di canzoni residente in Inghilterra. Già nome di punta della Él, tra l’86 e l’89, nelle sue canzoni Philippe è in grado di ripercorrere una vastissima gamma di riferimenti, l’eleganza e la sensualità di Ravel e Poulenc, la raffinatezza degli accostamenti di Bacharach, le spericolatezze di orchestrazione di Brian Wilson, la spigliatezza delle operette-rock dei Kinks, il teenage-pop anni sessanta di Petula Clark e degli Easybeats, i sapidi toni jazzati delle colonne sonore di Neal Hefti ed Henry Mancini, per citare solo i nomi che vengono in mente più di frequente. Dopo i tre album Él (tra cui l’assoluto capolavoro Yuri Gagarin), le sue incisioni si sono sparse su piccole e spesso difficilmente reperibili etichette; il cd che recensiamo esce per l’etichetta americana di Momus. Naturalmente (storia tipica per Louis), i cd di Momus per quell’etichetta sono stati importati normalmente, mentre questo siamo riusciti a ottenerlo solo chiedendo a un negozio romano – Just Like Heaven – di ordinarne una copia per noi. Altra via possibile dovrebbero essere i negozi-internet americani. Dopo dischi in Belgio, Inghilterra, Giappone, Spagna e Francia dunque, questo è il primo dell’autore a uscire in America, ragion per cui è stato approntato in taglio antologico, inteso a presentarne “il meglio degli anni Trattoria”, come spiega il sottotitolo; la Trattoria essendo l’etichetta – diretta dal noto Cornelius – che ne ha fatto uscire tutti gli album in Giappone a partire dal ’91, con i bellissimi Rainfall e Jean Renoir, usciti solo là e andati immediatamente fuori catalogo. Qui, per la verità, l’unico punto dolente di questa antologia: si sa bene che i creatori non sono i migliori giudici delle proprie creazioni (celebri i giudizi dei registi di cinema sui propri film preferiti), e Philippe a questo rispetto non sembra aver fatto eccezione: un solo brano – bello, ma ovviamente insufficiente a rappresentare il resto – da Rainfall, strepitoso album autenticamente sperimentale in cui tutti i suoni (accompagnamenti percussivi e “chitarristici” compresi) derivavano da suoni vocali e di pianoforte (suonato con tecniche “estese” alla Henry Cowell – non a caso dedicatario del disco assieme a Harry Partch – o campionato e trattato in studio), nessuno da Jean Renoir (la Lazy English Sun che era in quell’album fu poi riarrangiata per Sunshine, ed è in questa veste che appare qui). Niente da ridire sul resto della selezione: due brani da Delta Kiss (mancherebbe Like Any Other, ma il contrasto tra la dolcezza della melodia e la tragicità del testo la rendono una canzone di difficile ascolto, certo non adatta a un “greatest hits” di presentazione), ben undici da Sunshine (comprese due bonus track che erano apparse solo nell’edizione giapponese), sei da Jackie Girl (forse il miglior dell’ultimo periodo), l’exotica Bali Lied, proveniente da una compilation del periodo Humbug, e due brani dei quali non siamo riusciti a rintracciare la provenienza, quello eponimo (un breve strumentale con uno sbuffante organo da Luna Park, come da titolo), e Don’t Blame It On The Summer. Importante, come sempre nei suoi album, la scuderia dei collaboratori, tra cui il fido Daniel Manners (anche co-arrangiatore in Delta Kiss), Dave Gregory (degli XTC), Chris Batchelor (visto all’ultimo Angelica nel gruppo di Beresford), Steve Noble (batterista in Sunshine), Glen Fox, e l’ormai noto Bertrand Burgalat (co-arrangiatore in Sunshine e musicista in Jackie Girl divenuto in poco tempo, dopo gli oscuri inizi “Electronic Body Music” del duo The Gruesome Twosome su Cramned, un nome trendy grazie evidentemente ai contatti negli ambienti giusti, dal suo pezzo ripreso dai Laibach in Nato agli arrangiamenti di Gainsbourg per Mick Harvey). Sempre ricca e meticolosamente curata, la tavolozza degli arrangiamenti di Philippe non appare mai però eccessiva o sovraffollata; e riascoltare di seguito i ben 23 brani della compilation, consente di apprezzare al meglio la grande varietà degli spunti usati: il clavicembalo Wilsoniano a tempo di valzer di Only A Fool, il proto-synth spazialeggiante e l’“Aquaguitar” di Burgalat e la tromba Bacharachiana di Batchelor in L'Hiver Te Va Bien, lo splendido l’organo Hammond e il basso melodico di Manners in Boy, la chitarra ritmica blaxploitation di Rafaella, i glissando orientaleggianti degli archi della Covent Garden String Orchestra, l’“Elka Capri Transistor Organ” di Burgalat e la batteria di Noble in Martine, i ritmi preset delle tastierine-giocattolo primi-anni-80 (alla Marc Hollander degli Honeymoon Killers, per fare un esempio) di Lazy English Sun, l’intreccio piano-percussione alla Martin Denny di Sunshine, le Onde Martenot – Ondes Burgalot, nelle note – di Burgalat e le Tubular Bells di Philippe in Ainsi Va Sa Vie; siamo davvero senza parole, infine, di fronte all’eleganza di Le Voyageur (arrangiata dall’autore) e di La Pointe Du Jour (“il mio primo e ultimo contributo alla moda della Cocktail-Generation”, scriveva Philippe nelle note a Jackie Girl), graziata da un magistrale arrangiamento di fiati e archi di Manners. Abbiamo lasciato per ultima Jealous (da Delta Kiss), piccolo capolavoro di equilibrio sperimentale, perfettamente accessibile e (quasi) normale all’ascolto, ma composta quasi per intero di accordi aumentati e non risolti, cioè con una “tensione” della tonalità del tutto inusuale nel mondo della canzone e più vicina per esempio a Debussy (che sembra venir evocato dal flauto – che dovrebbe essere di Clive Bell, anche se non indicato nelle note – che la percorre). (Le Grand Magistery, P.O. BOX 611, Bloomfield Hills, MI 48303 Usa, magistery@aol.com, www.magistery.com; Siesta, www.siesta.es; alcuni Él e Jackie Girl c/o Megatalogo, 0187627893)

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