Davvero una bella conferma questo terzo disco di Luke Doucet. Nato ad Halifax in Canada, leader dei Veal sul finire dei ’90, chitarrista di Sarah McLachan poi, inizia la sua carriera solista nel 2001 con l’ottimo album “Aloha, Manitoba”, seguito nel 2001 da “Outlaws”, un live con alcuni inediti. Un cantautore atipico, originale, che certo non può essere inserito nel ricchissimo pentolone del roots americano. Pur conservando alcuni strumenti della tradizione, dal banjo alla pedal steel, il sound è ricco ed efficace. Oltre alla band lo aiutano infatti una serie di musicisti che si alternano tra fiati, tastiere, archi e cori, senza mai sembrare ridondanti. Il brano che apre il disco, uno dei più convincenti, sembra figlio dell’incontro tra rock e tradizione, tra acustico ed elettrico. Una melodia perfetta che per certi versi lo avvicina al Josh Rouse più recente, quello che ha regalato due dischi splendidi come “1972” e “Nashville”. In più Doucet fa sempre sentire, da buon chitarrista, la sua sei corde, quasi a voler imprimere uno stile da novello Neil Young. Anche se una canzone come “Broken One” ha sapori già sentiti in molti dischi, non fanno eccezione quelli di Ryan Adams, questo songwriter riesce sempre ad aggiungere un tocco personale, attraverso il quale prova a respingere anche i paragoni che potrebbero sembrare più evidenti. “Emily, Please”, ad esempio, trova sapore nei fiati dopo aver preso corpo grazie ad un bel chitarrone. Doucet ha gusto per la melodia, capacità di amalgamare bene i suoni e lo dimostra in ogni canzone dosando alla perfezione gli ingredienti della sua musica. Se a ciò aggiungiamo che ha pure una bella voce, gradevole e misurata anche quando si cimenta in pezzi solo per chitarra e voce, leggi “Wallow”, la convinzione di trovarsi di fronte ad un artista veramente dotato diventa ancora più rotonda. È però nella dimensione “suonata”, quella con band e comparse, che Doucet mostra le doti migliori di questo album, ricordando in qualche misura anche Sondre Lerche in una canzone dello spessore melodico di “It's Not The Liquor I Miss”, che scorre felicissima in un fiume sospinto da vorticosi violini, cori gioiosi e da un sax che la accompagna fino al mare. Pop immerso nel jazz, atmosfere che troverebbero terreno fertile nella Big Apple, sembrano alla fine la cifra stilistica cavalcata da Doucet con maggior convinzione. “Vladivostok” ne è un bell’esempio in un lavoro che raramente delude anche quando vola via strizzando l’occhio a Ben Harper. www.lukedoucet.com www.myspace.com/lukedoucet