A Siracusa c’è questa strana chiesa gigante, il Santuario, un cono di cemento armato di cento metri, come un faro, un occhio di Sauron che torreggia su tutto. Non c’è molto da discutere sui motivi della sua esistenza, erano gli anni sessanta, miracolo economico, miracolo di un quadretto della madonna che comincia a lacrimare, tutte ottime occasioni per far sentire importante una piccola città. Non bastava mica il paesaggio, la luce unica, la storia millenaria da capitale di un paio di imperi, Archimede, il barocco, la granita, la matalotta, no: avevamo e abbiamo tuttora un preciso modello da seguire, l’ambizione di essere all’altezza del trash verso cui il mondo si accingeva ad andare e di cui adesso vediamo la piena realizzazione. Il santuario è un buon esempio delle contraddizioni che hanno ispirato gran parte delle canzoni che stanno dentro il disco. È possibile volere bene a quella voglia di somigliare a qualcosa che fa schifo, che fa desiderare di avere la faccia come un filtro di instagram, che ci fa ambire ad essere tutti famosi, tutti invidiati, tutti guerrieri spietati, tutti i migliori, tutti americani, quando ci basterebbe guardarci un attimo attorno per capire che la nostra propria e luminosa bellezza è soltanto sommersa dalla cacca che ci facciamo e che ci facciamo fare addosso? Non saprei, a volte mi intenerisce, a volte non posso farne a meno, a volte me ne vergogno.
Marco Castello