Il cantautore più solitario, oscuro e intimista del nostro secolo: Matt Elliott. Tutta la follia e l’alienazione del mondo contemporaneo sono ancora racchiuse nella poetica rassegnata e malinconica di Matt Elliott, vent’anni dopo il capolavoro “Drinking Songs” che ha cambiato la storia del folk. Da Parigi, sua città d’adozione, il sad folk del cantautore britannico continua ad emozionare con il nuovo, acclamato album “The End Of Days”.Cosa si può costruire quando tutto è crollato, quando tutto si è sgretolato, ideali e convinzioni, senso di comunanza e comunità? Non resta che superarsi ancora e ancora, scavare ancora e ancora nelle stesse ossessioni, domarle, addomesticarle. Questo nono album di Matt Elliott a suo nome, se lasciamo da parte il suo lato più elettronico, Third Eye Foundation, ne è una prova. C'è nell'artista britannico una forza di espansione creativa che fa di ogni disco, soprattutto dall'inizio della sua collaborazione con il produttore e polistrumentista David Chalmin, una capacità di superarsi sempre, di sorprenderci sempre attraverso combinazioni che pensavamo di conoscere ma che, ogni volta, sono nuove.Certo, si vorrebbe classificare Matt Elliott in un genere o in un altro, ma più che a una scuola o a uno stile, l'Inglese è finalmente più in linea con un'eredità, una tradizione piuttosto, quella della denuncia, del canto di lamentazione che corre di continente in continente, di paese in paese. Dai canti rebetici greci al fado portoghese, dal delta blues alle fanfare balcaniche, dalla malinconia yiddish alla saudade capoverdiana, nella musica di Matt Elliott si sente tutto, il canto di una persona sradicata, di un apolide, di un essere fuori dal mondo.