Milford Graves Batterista e percussionista afroamericano dalla tecnica prodigiosa, raffinatissimo esploratore del colore timbrico, già negli anni sessanta Milford Graves era stato tra i protagonisti dell'intensa stagione del Free Jazz statunitense; ne sono testimonianza numerosi titoli dello storico catalogo ESP e un album celeberrimo quale Love Cry del sassofonista Albert Ayler. E se è vero che furono numerosi i batteristi che in quel periodo ampliarono i confini dello strumento, affrancandolo dal limitante ruolo di accompagnamento che aveva ricoperto fino ad allora e riscoprendone i legami con la tradizione africana, è anche vero che Graves - che aveva iniziato suonando le percussioni, il cui studio aveva approfondito con il maestro indiano Singh - ha in seguito proseguito su quella strada con esemplare dedizione. La decisione di dedicarsi all'insegnamento aveva causato il rarefarsi delle testimonianze discografiche. I rari avvistamenti - vedi lo splendido Dialogue Of The Drums condiviso con Andrew Cyrille e stampato nel '74 dall'Institute Of Percussive Studies - non potevano non accrescere il rammarico. E' per merito della Tzadik di John Zorn, che tre anni fa ha pubblicato Grand Unification, che il nome di Graves viene oggi riscoperto. E dato che la vasta fruizione di cui godono le musiche extraoccidentali ha oramai depurato l'ascolto da connotati di superficiale esotismo possiamo godere un album come Stories per ciò che veramente è: un luminosissimo esemplare di "musica folk d'autore". Tutti i brani sono stati registrati senza l'ausilio di alcuna sovraincisione, cosa che sulle prime è difficile da credere vista l'intricatissima giungla di linee ritmiche e melodiche prodotte da voce, batteria e innumerevoli percussioni e che va sottolineata per evidenziare non l'aspetto virtuosistico ma il perfetto controllo sugli elementi delle composizioni.