In tempi recenti, il progressive metal sta imboccando una strada che deve molto ai colossali Meshuggah. Questa particolare deriva stilistica, definita da gruppi come i Periphery (Fredrik Thordendal e, in seguito, il mastermind della stessa band, Misha “Bulb” Mansoor , hanno anche coniato e diffuso il termine che definisce questo approccio alla musica sperimentale e progressiva, ovvero “djent”), si basa su ritmiche di chitarra costruite tramite riff palm-muted e tempi sincopati, nonché suoni su computerizzati e poliritmie. I Monuments abbracciano completamente questa particolare maniera di fare musica, forse peccando nel seguire sin troppo rigidamente i suoi stilemi. Ma andiamo con ordine. La formazione del Regno Unito, che ha in Gnosis il proprio full lenght d'esordio, propone un album composto da nove tracce per un totale di quaranta minuti circa di puro djent metal. Una chiara sensazione di modernità pervade l'ascoltatore sin dalla prima traccia, Admit Defeat, che accoglie con un breve crescendo per sfociare immediatamente nello spirito tipico dello stile. L'ascolto procede in modo fluido sino alla fine, dimostrando da subito che Gnosis si presta ottimamente ad un ascolto unico: si tratta di un'opera omogenea (sia in senso positivo sia negativo), che tuttavia non si comporta altrettanto bene ad un esame delle singole tracce. Le chitarre di Olly Steele e John Browne seguono rigidamente lo schema djent, con ritmica descritta in precedenza, quasi totalmente basata su accordi stoppati, ed una parte solistica melodica ed elaborata che diviene protagonista nei momenti di pausa del singer Matt Rose. Apro una breve parentesi per dire che subito che il cantante è uno dei principali difetti di Gnosis: mentre la sua voce pulita si presenta, pur non essendo perfetta, decisamente buona ed in grado di regalare più di un grande momento (penso ad esempio a Blue Sky Thinking, la mia traccia preferita), quando si cimenta nello scream appare gracchiante e sforzato, non del tutto padrone della tecnica. Tornando al discorso chitarre, per quanto esse siano formalmente inattaccabili deficitano di varietà e di inventiva: le ritmiche di accompagnamento tendono a confondersi da una traccia all'altra (lungi da me proclamarne l'identicità, ma si poteva e si doveva fare di meglio per differenziare i vari pezzi) e, cosa ancora più grave, rimandano troppo spesso alla formazione americana di Mansoor. Adam Swan suona il suo basso elettrico con competenza, pur senza farsi particolarmente notare, limitandosi a contribuire al groove dei pezzi. Alla batteria, infine, Matt Rose svolge un buon lavoro, dettando il tempo in maniera decisa, ma anche qui non abbiamo particolare prova di inventiva, né voglia di stupire l'ascoltatore. https://www.facebook.com/thisismonuments thisismonuments.com/