Orchestra del Teatro Comunale di Bologna Jurjen Hempel direttore musiche di Morton Feldman Coptic Light (1987) Morton Feldman (prima italiana) Secondo Morton Feldman, il limite creativo di Charles Ives starebbe nel carattere “letterario” della sua musica, per cui, a suo parere, questa diventerebbe soprattutto un veicolo per idee “purtroppo non musicali”. “Penso - ha avuto occasione di aggiungere - che ciò in cui io e Cage divergiamo in un certo senso da Ives sia dovuto al fatto che noi stiamo scrivendo MUSICA. Effettivamente - commenta - una delle cose più interessanti è che all’epoca [del loro incontro, e con Christian Wolff ed Earle Brown] forse noi eravamo i SOLI a scrivere musica”. A questo punto sappiamo già qualcosa, che può anche essere considerato molto circa Feldman in quanto musicista; sappiamo, cioè, che la sua idea non è che la musica sia un mezzo per l’espressione del pensiero umano, ma che essa è un mondo sensibile oggettivo, non intenzionato e privo di rinvii al discorso. Possiamo chiederci se la musica come tradizionalmente intesa è diventata quale è a causa di se stessa o per quell’ideologia. Dare un inizio di risposta non è impossibile; basta pensare a Bolero di Ravel, a questa composizione straordinaria che, se studiata con gli strumenti della musicologia analitica, avrà ben poco da dire. Possiamo definirla come una questione quasi soltanto timbrica, accompagnata da un dettaglio relativo all’intensità – e per questo troviamo che la maniera in cui ne affronta l’esecuzione Jacques Loussier, in un trio d’impostazione jazzistica, ne limita la potenzialità di senso, poiché invece di incanalarne la lettura verso Satie e le sue Vexations, la indirizza piuttosto verso I quadri di un’esposizione (latina). In realtà, Bolero anticipa e apre la strada al Novecento, superando le “resistenze” schoenberghiane e indicando una via che sarà, a tre quarti di secolo, quella del pensiero minimale. Naturalmente non si dovrebbe dimenticare Satie e forse si potrebbe ricordare Rossini, ma prima di tutto bisogna dire che se la musica nel secolo ha tardato a incamminarsi sul sentiero di quella modernità che è di Manzoni, Rothko, Dorazio, Le Witt, ciò si deve probabilmente non al gusto musicale, ma a una critica della musica, di cui sarà campione Pierre Boulez, attestata sui criteri di una competenza lessicale che, se intenderà le poetiche musicali minimal, lo farà solo filosoficamente. L’importante non è tanto questo, e non è su ciò che chiedo l’accordo, ma sul fatto che questa musica, al di là dall’essere nata per un’idea di balletto (ma, fosse solo questo, potrebbe attardarsi sulla soluzione offerta dalla “Danza dei sette veli” della Salome di Strauss) ha soprattutto il carattere di un’opera timbrica e chiede di essere valutata con criteri che vi si adeguino. Se nell’arte figurativa si fosse insistito nel valutare il nuovo coi criteri che avevano reso possibile apprezzare la pittura fino all’impressionismo (o anche all’espressionismo) ben poco sarebbe stato capito di Mark Rothko, Ad Reinardt, Keneth Noland, Ellsworth Kelly, Frank Stella e di un po’ tutto quanto riempie le gallerie dell’ultimo Novecento. Ora, Morton Feldman, che non può essere definito nipotino di Ravel, muove i suoi passi comunque a partire da quell’intreccio nel quale si annodano sensibilità musicali e pittoriche interessate all’affrancamento dell’arte dalle retoriche del comporre. Non si tratta di recuperare un ritardo semisecolare, ma esso c’è e, nella specificità suono-temporale, si deve alla pochezza futuristica dei musicisti futuristi. Il suggerimento di quella letteratura andava già, infatti, nella direzione di quello che poi la musica-musica, come la pittura-pittura, ha progettato di realizzare. Tra quelli, i futuristi, e l’arte libera del suono spicca solo la figura di Varèse, alla cui arte in realtà, solo tardivamente s’è cominciato a guardare con un sostanziale interesse – e un po’ di merito per la messa in circolazione del nome, anche se solo non più del nome, va, crediamo a Frank Zappa. Dal futurismo, comunque, la musica di Feldman ha una distanza abissale. Non è nemmeno una musica terrena, ma nasce in sintonia con l’idea degli spazi infiniti e senza centro, nei quali tutto (forse) si muove, ma senza che ciò sia avvertibile. Le idee della velocità e del ritmo sono accantonate: il tutto fluisce come un fumo nell’aria quieta. Non c’è melodia, non ci sono percorsi, ma solo un flusso timbrico e di densità. Quando il fuoco dell’attenzione è su uno strumento (il pianoforte, la viola, il cello), le sue caratteristiche sonore sono ciò su cui tutto si concentra, mettendone in evidenza la voce sia per contrasto che con l’espanderne l’alloure. Mai nulla di virtuosistico ha luogo. Nella pagina che si ascolta nel concerto odierno, l’occhio e l’orecchio sia di Feldman che quello degli ascoltatori sono immersi insieme in un infinito che nasce dall’appassionata attenzione del musicista ai tappeti. È probabile che la loro impersonalità abbia a che fare con quella che ha cercato lui per la sua musica. Non è che quelli non abbiano identità, tantomeno questa, ma ci giungono come segni di una cultura materiale, quella che ha l’identità di un periodo, non di un autore. Come tutta la sua musica Coptic Light non ha un beat, se non quello di un’onda lunga. È la sua ultima opera per orchestra, consegnata alla filarmonica di New York, committente nell’anno precedente quello della sua morte (il 1987). C’è uno strano pedale percussivo che dà un’impressione di narrazione e, inoltre, un arpeggiare del pianoforte che mi fa pensare a Ravel. Che ci sia un suggerimento dell’udito che porta da Feldman, indietro, a Debussy non è una novità – l’ambiguità del francese continua nell’indifferenza tonale dell’americano -, ma qui a tratti qualcosa s’aggiunge in un’ineffabile ninnananna piena di colori sfuggenti. Come ha scritto Gianfranco Vinay, “il tappeto non è solo intreccio di fili colorati e oggetto di contemplazione estetica”, ma un panorama, un non luogo favolistico che surriscalda il sogno della creatività di Feldman. Se non ricordo male, doveva essere uno studiolo nel retrobottega della lavanderia della moglie il luogo in cui egli si era ricavato lo studio in cui lavorava negli anni Sessanta. Tra lui e la strada, altre macchine allora, ma senz’anima, continue nel rumore tanto da diventare silenziose, e, da esse, probabilmente, vapori (non sono pratico). Uno spazio assurdo per l’immagine dello studio di un musicista almeno tanto quanto l’immagine della sua musica per il pubblico del repertorio. Giampiero Cane