E di questi «oggetti secondari» che formano una specie di «sovrastruttura stralunata e incontrollabile», di nuovo rubo le parole a Cave, di quell’universo imploso o esploso che funge da costellazione apparentemente liminale di ogni singola canzone – e quindi di ogni singolo momento della vita di chi, quelle canzoni, le ha portate dentro spesso senza sapere di averle, non prima di “scoprirle” e mostrarle – ce n’è un campionario veramente astruso e curioso. Silenzioso, ovviamente, se si eccettuano delle brevissime didascalie e la sezione finale degli “approfondimenti” che funge in pratica da legenda o da didascalia allargata, proprio per lasciare scorrere in un flusso asincrono e slegato dalla mera contestualizzazione cronologica flashes, istantanee, fermoimmagine di vita e di forma mentis, prima ancora che, come detto, di canzoni: immagini, spesso e volentieri sacre, tra icone rimediate nei mercatini delle pulci o autocostruite nel tentativo di «sviluppare una teologia unica che include sia il desiderio sessuale sia il desiderio di divinità»; ma anche private, come le foto dei genitori Colin e Dawn o di un Nick cucciolo nel coro della chiesa di Wangaratta. Poi stralci di taccuini (da quello con la prima stesura manoscritta de La morte di Bunny Munro al dizionario scritto a mano del 1984-’85, dove si notano le parole “aneurysm”, “anabaptist”, “avidity”, “auto-erotism”) e disegni, come il ritratto dipintogli dal primo amore Anita Lane, gli schizzi di donne nude che Cave ha definito «un vizio irrefrenabile» o la maglia autoprodotta per l’“Hotel Reparation Charity”, ovvero per pagare i danni in qualche hotel devastato.