Complice un recente ascolto di uno di noi mi è tornata un'improvvisa quanto deleteria voglia dei Pelican. Band che si forma nel 2001 nella grigia periferia di Chicago e che esordisce con questo solenne EP di quattro canzoni sul finire dello stesso anno. E' l'etichetta discografica Hydra Head Records (di proprietà di un certo Aaron Turner) ad occuparsi della divulgazione del lavoro. Anche l'inquietante artwork viene curato da Aaron, impegnato in quelle annate nei primi lavori della sua creatura denominata Isis. Dopo poche righe sono già arrivato al più importante nome di riferimento per comprendere ed apprezzare la musica messa in campo dal giovane quartetto. Post-Rock, Post-Hardcore strumentale, con abbondanti e tracimanti dosi di Stoner-Sludge grazie soprattutto al suono oltremodo ribassato e schiacciante delle due chitarre; un muro sonoro distorto, abrasivo, rigido, inquadrato. Prendete in parti uguali Neurosis, Kyuss, ovviamente Isis; centrifugate il tutto ed apparirà in lontananza il pachidermico, lento, monumentale approccio sonoro dei Pelican. Pochi gli istanti dove si può respirare, come avviene nella prima parte dell'opener Pulse. Per il resto dell'EP martellano ai fianchi, fanno tremare il terreno, bussano alle porte degli inferi. Scardinano ogni resistenza. Questa dimostrazione di spaventevole forza si può avvertire in particolare in Mammoth (con un titolo così del resto...). Sembra di ascoltare dei primordiali Cathedral, quelli più Doom e Sabbatici, che veleggiano in oscuri mari alla ricerca perenne di un attracco liberatorio. Cinque minuti tetri che ti lasciano corto non solo di fiato. Conclude il lavoro The Woods; tredici minuti che non finiscono mai. Angoscia; solenni ripetizioni del medesimo riff. Una batteria viziosa, brumosa; il basso che taglia l'aria. Esplosioni improvvise, rallentamenti glaciali che lasciano un barlume di speranza. Ma ripartono e affondano il coltello nella piaga...e si arriva in catalessi alla fine...letteralmente esangui.