Reinterpretare il passato ha senso quando c’è dialettica vera. Quando l’incontro tra generazioni porta qualcosa di suo nella tradizione – non la replica soltanto, e diventa per questo tradizione, una sorta di collante temporale che trasmette il senso di una storia e di un’identità, personale e collettiva. Quando insomma nel tributo si innesta uno scambio autentico. Scambio emozionale, creativo, umano – come qui, dove i ricordi intimi si intrecciano con un discorso musicale che ne tocca e sottintende mille altri.
L’incontro di cui parliamo è quello tra Raiz, voce di una Napoli contemporanea di fine millennio e oltre – di una città che multietnica lo è già per la sua peculiare vocazione canora mediterranea (ne parlavamo tempo fa proprio con lui in questa intervista), ma che lo diventa ancora di più aprendosi ai suoni provenienti da Brixton, da Londra o da Bristol –, e Sergio Bruni, straordinario interprete della canzone napoletana nel secondo Novecento, la “voce di Napoli” dei decenni dopo la guerra, per popolarità ma anche per un – diremmo oggi – endorsement d’autore come fu quello di Eduardo de Filippo («Dicono che tu sei la voce di Napoli, ma dicono pure che Napoli sono io. Allora tu sei la voce mia»).