In realtà, con i sonetti del bardo di Stratford-upon-Avon, il canadese aveva già avuto a che fare sei anni fa, in occasione di quel All Days Are Nitghts: Songs For Lulu in cui erano le sofferenze della madre malata a spingere Wainwright a rifugiarsi nella poesia per leccarsi le ferite.
Qui, l’intento celebrativo si manifesta in una pletora di ospiti internazionali che cantano o declamano i sonetti. Per cui, il disco (tolta un’introduzione dai sapori elettronici un po’ fuorviante) risulta una doppia lettura di nove composizioni di Shakespeare recitate in diverse lingue e cantate da Rufus in prima persona o da ospiti del mondo del bel canto. L’operazione, per sua natura, non può che essere riuscita solamente in parte. Paradossalmente, quando Wainwright ha a disposizione l’orchestra e una eccellente voce femminile come quella di Anna Prohaska (specializzata nel repertorio antico), il risultato è meno interessante: canzoni che non rimangono impresse né per la linea melodica, né per l’impianto strutturale originale. Tutt’altra cosa, invece, quando Rufus sceglie di asciugare in tono intimistico per scavare dentro le parole e le immagini che le stesse evocano. Il confronto diretto è reso possibile da un sonetto, Sonnet 20, che è proposto nelle due versioni: quella orchestrale, pur mostrando con la linea di violino iniziale un fascino fragile e di sicuro impatto, non regge la forza della reprise più canonicamente rock in cui sembra di ritrovare i Mercury Rev di Desert’s Songs. Interessante anche la rivisitazione in stile klezmer e in tedesco del sonetto 66, che si tramuta rapidamente in una danza sghemba, o la resa à la Efterklang di una Take All My Loves (Sonnet 40) affidata alla voce di Marius de Vries.
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