Presentano con queste parole gli Shiver il loro ultimo disco “Settembre”, rilasciato a settembre 2017 e ripreso oggi da Macramè in concomitanza con la prossima pubblicazione del video di “Storie di sospiri e ginocchia sbucciate”. Un ep di quattro canzoni che è anche la quarta uscita del gruppo (fino ad oggi due ep e un disco lungo). Nonché il sigillo della maturità raggiunta dall'indie-folk band lecchese dopo diverse esperienze, fra cui il FolkCoopera Tour come backing band di Davide Van De Sfroos, culminato con il concerto di San Siro della scorsa estate.
“Settembre” è stato registrato in presa diretta – senza sovraincisioni e particolari effetti sugli strumenti – bilanciando gli arrangiamenti e lasciando sgorgare tutta la carica live dell'insieme del gruppo. Quello degli Shiver è un suono aggiornato alle ultime evoluzioni dell'indie-folk d'oltreoceano, con uno sguardo al rock e un altro alla canzone d'autore di casa nostra. La strumentazione è quella tipica del genere, fra chitarre acustiche, banjo, contrabbasso, lap steel e fiddle ed è con questi strumenti che gli Shiver affrontano l'approccio post-grunge della title-track o il pianoforte evocativo di una ballad da manuale come “Storia di sospiri e di ginocchia sbucciate”.
Fra questi due estremi, tutt'altro che divergenti grazie all'omogeneità delle scelte sonore, si muove un disco breve ma denso. Gli Shiver, da buoni storyteller, raccontano semplicemente delle storie, nate da incontri come quello con due tossicodipendenti accomunati dal grande desiderio di aprirsi al mondo cercando di sputare fuori il loro disagio (“Settembre”). Ma non tralasciano neppure un'invettiva contro una discografia che mette l'intenzione artistica all'ultimo posto, in modo da produrre delle perfette “Medicine per il morale”, dato che “siamo soli con noi stessi perché tutti abbiamo un iPhone che ci ama”. E se “Storie di sospiri e ginocchia sbucciate” è “una canzone d’amore per la Vita nella sua interezza, per quell’inestricabile filo di gioie e dolori che ognuno di noi prova e che, in definitiva, ci forma” sta nella chiusura di “Oltre il suo ritorno” una possibile chiave di lettura di questo piccolo disco ad alto gradiente emotivo.
“E' un bugiardino-preghiera – raccontano loro – la cui unica controindicazione è il non urlare abbastanza forte la propria voglia di eliminare uno dei mali quotidiani del nostro tempo: l’ansia. Un demone che vogliamo scacciare”. Perché in fondo a questo serve il folk: raccontare storie, denunciare ingiustizie, fare i conti col dolore. Grazie a canzoni che sono medicamenti fatti di parole di sostanza buona, di chitarre e violini dolci, di una musica biologica che spurga la rabbia, amplifica la gioia e genera la danza.