SILKWORM Lifestyle Ora che i Pavement sono defunti... si legge nelle note biografiche che accompagnano il ritorno dei Silkworm. Lo si è letto spesso negli ultimi mesi. Lo si legge e non vogliamo crederci, ma pare che l'annuncio di Malkmus a proposito del ritiro dalle scene per un periodo massimo di due anni (per metter su famiglia e altre cose del genere) fosse un modo sottile di squagliarsela in silenzio, come in una dissolvenza definitiva. Ora stiamo qui sperando in un annuncio contrario. Nel frattempo, sembra che ogni band che abbia a che fare in qualche modo con i suoni e il lifestyle del rock indipendente americano debba per forza di cose proporsi come paladina di un genere sempre sul punto di spirare. Ma la verità è che di band come i Pavement non ne nascono a decine per ogni generazione. Bisognerà aspettare la prossima. E comunque non sarebbe giusto svilire la storia, passata e presente, dei Silkworm a mera figura di second'ordine all'ombra dei Pavement. Primo perché Andy Cohen, Tim Midgett e Michael Dahlquist segnano con "Lifestyle" il loro settimo passo nel piccolo rock americano e sette dischi non sono esattamente roba da novellini. Secondo, e più rilevante, perché i Silkworm possono somigliare ai Pavement in quanto a indipendenza di spirito e sotterraneità di movimenti, ma non certo, o non proprio, per affinità di suono. Se è vero che la matrice pop di alcune evoluzioni ritmico-melodiche può essere rintracciata nelle meraviglie perdenti dei Big Star (ma quanti sono oggi i gruppi americani che possono dirsi totalmente affrancati dal modo unico dei Big Star?), è ancora più indietro che andrebbe ricercato l'humus da cui sgorgano le frastagliate esplosioni chitarristiche e le visionarie parti melodiche dei Silkworm. Indietro fino a Neil Young e Lou Reed, oggi magari fino ai primi Uncle Tupelo o ai Built To Spill o ai Varnaline. Rock grosso in ambienti piccoli, questo è il senso. Canzoni con un peso e un odore conosciuti, ma sempre fresche e scritte con rabbia e talento ostinatamente underground. Passando dalla Matador alla Touch & Go, i tre americani di Seattle (in verità la loro hometown è su nel Montana, e si sente) sono tornati dopo esser stati sul punto di smettere. Meglio così. Ci saremmo persi la cover di "Ooh La La" dei Faces, e non sono molti i gruppi di indie-rock con tanta faccia tosta da potersi permettere una scelta così squisitamente anticonformista (ma ci sarebbe dispiaciuto perdere anche le altre undici tracce di questo disco, tre o quattro delle quali di una bellezza fulminante).