Passo indietro: come da luogo comune, il secondo disco è sempre il più difficile. Non che When I Get Home sia davvero il secondo album di Solange, ma come dicevamo sicuramente è il secondo da quando agli occhi del mondo non è più semplicemente la sorella meno diva di Beyoncé. Ripetere il successo di pubblico e critica ottenuto con A Seat at the Table non era certo facile, e Solange si è accorta – o almeno questa è la forte sensazione – di non avere tra le mani pezzi neanche lontanamente all’altezza di quelli contenuti nell’episodio precedente. Così la strada scelta (obbligata) è stata appunto quella quella del polpettone impegnato e cool, traboccante di blackness e sfoglie avant-jazz. Una narrazione di uotpie afrofuturiste, all’inseguimento di una Houston-of-the-mind a metà tra roots e slancio chimerico. Il risultato è un viaggione lungo 19 pezzi (ma per soli 40 minuti di durata complessivi) infarcito di interludi e riferimenti “alti”, nessun singolo spendibile (l’unico che ci si avvicina vagamente è Stay Flo, che fa molto Erykah Badu) e un’aura decisamente pomposa da opera di spiritual jazz che flirta col pop senza scansarlo in toto. Il jazz in questione non è quello caotico targato Brainfeeder e nemmeno quello fondamentalmente reazionario di un Kamasi Washington.