Dovrebbe essere uno dei nomi nuovi dell'Americana, almeno stando alle presentazioni ufficiali, a quel poco di rassegna stampa e naturalmente alla qualità delle sue uscite discografiche. Il condizionale è d'obbligo quando si entra nella giungla di produzioni dal sottobosco roots americano: nel caso di Stephen Simmons tutto calza a pennello, visto che la sua biografia racconta di un ragazzo cresciuto a Woodbury, nel bel mezzo del nulla, stato del Tennessee, e presto infilatosi sulla strada per Nahville in cerca di migliore sorte. In verità non è proprio un novellino: in meno di dieci anni di carriera ha messo in sequenza sei dischi, dai più spartani e autoprodotti ai tentativi di farsi largo a spallate con qualche legittima ambizione (Something in Between nel 2007, ad esempio). Alla resa dei conti Simmons resta ancora uno di quei troubadour in cerca di identità: molte miglia sotto le scarpe, punti di riferimento precisi, un dono naturale per le storie e le parole, ma un talento un po' troppo artigianale per aspirare alla prima serie, peraltro già parecchio inflazionata. The Big Show non fa che amplificare queste sensazioni, a maggior ragione contando sulla bellezza di venti tracce e più di settanta minuti di musica: una interminabile sequenza che evidentemente non regge nelle mani di uno storyteller con mezzi espressivi limitati ai soliti accordi e alle solite soluzioni strumentali. Un lavoro che piacerà ai cultori del country rock più narrativo, sulla scia di Chris Knight, Todd Snider e naturalmente Townes Van Zandt e John Prine, tanto per circoscrivere un pantheon di padri ispiratori. Bella compagnia, non c'è che dire, e grande musica di riferimento sia chiaro, anche se nel caso di The Big Show resta più una mappa, un obiettivo da raggiungere che non una vera e propria conquista. Simmons ha fatto tutto secondo i crismi: un concept sulla vita itinerante di un clown al seguito di un circo (bella davvero la copertina dal tocco "felliniano"), una metafora sulla stessa esistenza e il suo significato, accompagnato dal suono dei bassisti Dave Jacques (John Prine, Shelby Lynne) e Tim Marks (Taylor Swift, Will Hoge), dalla batteria di Matt Crouse (Sheryl Crow) e Paul Griffith (k.d. lang, Todd Snider), dalle tastiere di una rediviva Jen Gunderman (The Jayhawks) e da altri personaggi della sponda alternative country di Nashville. Quello che si è dimenticato di fare è di dare una sforbiciata alle sue pretese, per cui dal limpido country e dalle pulsioni heartland rock di Parchcorn Falls, Spark, C'Mon World, Just What I Got si scivola gradualmente verso una manciata di episodi solitari e acustici che rischiano di assomigliarsi tutti, senza distinzioni di sorta. Non ci sono canzoni memorabili nella cesta di Stephen Simmons, questo il vero problema, soltanto qualche buon ricamo elettro-acustico (la stessa The Circus) che finisce per perdersi in brevi brani recitati, un po' pretenziosi e deboli, oppure in minuscole ballate (By My Side, I Am Not Bars on Woodland) che rivoltano sempre lo stesso terreno. www.stephensimmonsmusic.com