KAOS INTERVISTA: STEVE ROACH A cura di Roberto Michieletto. Introdurre Steve Roach è impresa che necessiterebbe di uno spazio ben superiore a quello disponibile e - in tale contesto - toglierebbe troppo spazio all’intervista che Steve mi ha gentilmente concesso. Perciò ritengo che sia opportuno evitare di aggiungere ulteriori commenti, in quanto saranno le parole del musicista a iniziarvi al suo mondo e nel caso in cui foste assetati di dettagliatissime e ulteriori informazioni vi suggerisco caldamente di andare a visitare il suo meraviglioso sito: www.steveroach.com! So che ti vedi più come uno scultore di suoni o come un pittore che sfrutta i suoni al posto dei colori piuttosto che un musicista. Potresti approfondire questo argomento? Non si tratta di un argomento quanto di una prospettiva. Mi sento come se stessi modellando suoni e colori con la mente e con lo spazio in cui sto ascoltando tali suoni. Questa per me è anche la vera definizione di “Space Music”. Vedo i musicisti più convenzionali interessati alla melodia, alla forma e ai testi. Queste, spesso, sono formule che non permettono di oltrepassare le barriere del tempo quotidiano. Miro a creare uno spazio che mi permetta di andare oltre le barriere del tempo normale e di entrare in uno più ampio, dove noi umani chiediamo con insistenza di entrare. I miei sentimenti guardano ai suoni come a un qualcosa inerente forme e colori, struttura e densità e relazioni emozionali e spirituali. Di certo ci sono grandi produttori di musica popolare che potrebbero essere chiamati scultori nel loro genere, ma l’idea di scolpire o dipingere sembra essere una metafora naturale quando incido i “soundworld”, dando un tocco di pennello qui e tirando fuori un pezzo di argilla, aggiungendo qualche metallo luccicante a una sezione fatta di legno. Il lato elettronico della tua musica è completamente integrato con quello ancestraletradizionale? Sono molto afferrato in specifici strumenti aborigeni non elettronici allo stesso modo in cui lo sono per specifici strumenti elettronici. Questa è una parte che compensa il mio approccio dal punto di vista tecnico. Inoltre c’è da considerare il modo in cui ho bisogno di creare e ascoltare. Per me il didgeridoo va messo sullo stesso piano di un sintetizzatore analogico classico, è solo una versione precedente di uno strumento che può essere usato per generare suoni profondi, mettendoci in contatto con le nostre radici primordiali e con il lontano futuro allo stesso tempo. Hai collaborato con numerosi e differenti artisti: è un modo per raggiungere qualcosa che non raggiungeresti se lavorassi da solo? Le collaborazioni hanno la potenzialità di elevare le cose a un altro livello. Considerando che trascorro molto tempo in solitudine intagliando suoni, il desiderio di condividere con altri il tempo, lo spazio e la musica è sempre positivo e fa apparire il tutto naturale, come avere una conversazione con amici che hanno un altro approccio mentale. Ho bisogno di un bilanciamento tra il comporre da solo ed esplorare me stesso. A volte solo l’idea di mettersi insieme con un certo artista ti aiuta a direzionare i tuoi pensieri in un’area differente. Trovare un collaboratore pieno di sentimento che condivide una visione simile, ma in modo contrastante, senza il dramma costituito dall’ego, è davvero raro e per questo apprezzo tantissimo la mia amicizia con Vidna Obmana, Vir Unis e Roger King. Parlami di “Body Electric” e di Vir Unis! “Body Electric” racconta la storia della musica come la sentiamo noi; dal di dentro verso l’esterno. Da un livello cellulare al suono pulsante e ansimante del sangue che scorre. Nella mia musica chiamo questo come “l’orologio del corpo”; è dentro ognuno di noi e ho speso anni per sintonizzarmi con tale consapevolezza. Vir Unis è un artista che ho incontrato quando ha aperto un mio concerto alcuni anni or sono; diventammo amici e abbiamo condiviso reciproche comprensioni. Al tempo lavorava quasi esclusivamente con un computer e aveva un suono che era umano e non meccanico, qualcosa che non mi era capitato spesso di ascoltare da un compositore che si basasse solo su computer. La tua musica è una sorta di terapia che sfrutti per liberarti da qualcosa di materiale o spirituale? La mia musica proviene da un puro impulso che si fonde con qualcosa che sembra sempre essere fuori dalla possibilità di essere raggiunto. A un livello più profondo ha molto a che fare con i ricordi della nascita e con l’eventuale e inevitabile relazione che ci lega alla morte e, naturalmente, con tutto ciò che sta nel mezzo. È un posto al di sotto delle parole e dei linguaggi. Ho stabilito alcune priorità nella mia vita che sono quelle di evolvermi come artista, in modo tale che possa diventare più accurato nel creare i ritmi e i movimenti di quelle forze senza nome che infondono la vita. Penso che l’incontro con il maestro David Hudson-Dwura sia stata una grande esperienza. Ci siamo incontrati nel 1987 e ci siamo influenzati a vicenda. Naturalmente la sua abilità nel suonare il didgeridoo era ciò che cercavo con i miei viaggi in Australia, oltre all’interesse personale. Egli non aveva alcuna conoscenza di elettronica, di come suonare il didgeridoo in spazi creati con riverberi digitali, campionare, processare e usare lo studio. La gente spesso pensa che sia il giovane bianco a dover apprendere cose dal mondo indigeno-aborigeno, ma tra me e David il rispetto reciproco e lo scambio era ad alti livelli e ci siamo incontrati lontani dai nostri mondi con una semplice apertura. In seguito ho iniziato a suonare il didgeridoo da solo, ma per cinque anni mi sono accontentato di registrare e produrre David. A un certo punto ho colto che era giunto il mio momento, il che è accaduto naturalmente! Descrivi il didgeridoo! È un lungo tubo ricavato dal ramo di un albero solitamente scavato dalle termiti. Viene suonato facendo vibrare le labbra nell’imboccatura fatta di cera d’api. Il processo di respirazione circolare è sviluppato per mantenere un’onda costante di suono ronzante che viene spesso modulato con la voce allo stesso tempo per creare versi di animali e accenti musicali. C’è un fine ultimo nella tua musica? Rimanere connesso alla verità e continuare a ricercare la bellezza della vita e il coraggio di esprimerla, non importa quale essa sia. Questa è una grossa difficoltà nei tempi complessi in cui stiamo vivendo. Qual è stato l’input che ti ha fatto trasferire da Los Angeles al deserto dell’Arizona? Los Angeles è un ricordo lontano. Mi sono spostato lì dalla contea rurale di San Diego per seguire i miei sogni di creare musica. È stata una lezione di vita durata 12 anni, ma poi ne ho avuto a sufficienza; non sono un fan delle città e di ciò che sono diventate. Mi ero spinto a fondo con il bisogno di costruire un deserto interiore sino a quando non mi fossi trasferito in un posto reale. Il deserto è la mia casa nel senso più vero del termine. Non ho mai trovato alcun altro ambiente che mi soddisfi come questo. I paesaggi in lontananza, gli estremi e indefinibili confini della vita, della morte e l’esposizione del tempo in movimento sono costanti. Immergendomi in questo ambiente e traendo suggerimenti dai suoi ritmi, dalle sue escursioni termiche, dai suoi profondi momenti di silenzio e dall’effetto che queste cose esercitano sul mio corpo e sulla mia psiche, trovo che la musica si componga quasi da sola quando torno nello studio. L’idea non è quella di rappresentare il deserto nel suo significato musicale letterale, ma di penetrare dentro l’invisibile, la sorgente primordiale che esprime se stessa attraverso il deserto, permettere a quella forza di influenzare il mio lavoro. Questi sentimenti sarebbero difficili da catturare con le parole e se dovessi cercare di pianificare una composizione in maniera intellettuale fallirei sicuramente. Anche il supporto e il legame con mia moglie Linda Kohanov è oltre misura fondamentale. Qual è l’importanza del Timeroom Studio? È semplicemente una graziosa camera singola con una grossa finestra rivolta verso le montagne e il deserto. Spesso lo chiamo “timewomb” (grembo del tempo) dal momento che ha quella specie di feeling caldo e sano. Non troverai alcun telefono o orologio al suo interno. Altri hanno captato lì gli stessi sentimenti che ti ho descritto prima a proposito del deserto e abbastanza spesso non vorrebbero andarsene via. Silenzio e solitudine! Sono davvero due cose vitali che la mia musica tira fuori. Ho assolutamente bisogno di lunghi periodi di tempo dove non vedo alcuna persona e non ascolto alcun suono a parte l’ambiente desertico e la musica su cui sto lavorando. Quello è anche il momento in cui avverto più affinità con il processo creativo seguito dal pittore, che trascorre ore, settimane e mesi da solo nello studio vivendo con l’opera che sta realizzando. La tua musica è la perfetta colonna sonora per... La vita! C’è una domanda che non ti è mai stata posta e a cui vorresti rispondere? La prossima grande domanda è quella che emerge ogni qual volta entro nello studio per incominciare a dipingere un nuovo “soundworld”.