All’indie rock canadese, ormai, dovrebbero metterci il marchio dop, senza che sia neppure necessaria l’etichetta di provenienza. Basta un ascolto, e già lo si riconosce: cantato spastico e incontinente, chitarre angolose che sprigionano riff a ogni svolta, strutture labirintiche che disgregano la forma-canzone in una babele di meandri e piroette inattese, spire e volteggi circensi, colorismo vivace spinto in continui tête-à-tête con ritmi ironicamente funerari, coralità sparsa tra i riverberi, uso moderato dell’elettronica a galvanizzare la ruvidezza di fondo. Qualità assicurata. E Spencer Krug, dell’indie rock canadese, è senz’altro il vero guru. Perché ha un piede nei Wolf Parade, uno negli Swan Lake e un altro (?) nei Sunset Rubdown, senza contare le intrusioni nei Frog Eyes. Perché è incontinente, frenetico, stacanovista, capace di far uscire tre dischi nel giro di un anno e di promuoverli con tour contemporanei nei quali si sdoppia senza imbarazzi. Perché in questo “Dragonslayer”, quarto lavoro sulla lunga distanza dei Sunset Rubdown, dimostra di sapersi migliorare nel tempo mantenendo intatte le sue peculiarità di compositore, vocalist e strumentista. Va detto che nei Sunset Rubdown, contrariamente agli altri progetti sopraccitati, si muovono attorno a Krug strumentisti che gli lasciano piena libertà in fase compositiva (d’altronde l’esperienza Sunset Rubdown, diversamente dalle altre, nasce come un suo solo-project), sicché la band finisce per essere l’ala più magmatica e sperimentale dei vari combo canadesi, ma assieme anche la più omogenea (quantomeno vocalmente). Qui, rispetto all’eccellente “Random Spirit Lover”, cala il peso dell’elettronica e della manomissione da studio, a favore di sonorità più rozze. Ne escono otto pezzi tutti assai lunghi (per quasi 50 minuti totali), nei quali si sbozzolano in realtà diverse sotto-canzoni, in una composizione dedalea quasi strutturalista, tra ritornelli carsici, leitmotive dissimulati, cambi di scena repentini e moltissima (incontrollabile) creatività. Se è sufficiente un solo ascolto per notare la qualità dell’insieme finale, ne sono necessari molti per apprezzare i dettagli e per riconoscere l’architettura che regge i singoli pezzi, a partire dal romanticismo tortuoso di “Silver Moons” che sfocia nell’esaltante duetto finale con Camilla Wynne Ingr. Mentre “Nightingale/December Song” rivela assieme la scrittura simbolica e ammaliante di Krug e un amore prepotente per i ghigni tenebrosi degli accordi in minore (uniti a organo e acustica: vd. “Modern World”, uno degli apici su singolo dei Wolf Parade: autunno pieno), altrove spiccano derive psichedeliche più muscolose (“Black Swan”, “You Go On Ahead – Trumpet Trumpet II”) a condividere il campo con episodi legati a una maggiore ascoltabilità ‘pop’ (“Apollo And The Buffalo And Anna Anna Oh”: sensazionale la spinta del piano; “Paper Lace”, che rifà un pezzo già presente nell’ultimo degli Swan Lake aggiungendo nervi e sostanza, e direi migliorandolo). “Idiot Heart” è uno spasmo indie lungo sei minuti che schiude almeno tre brani diversi (quanto contano gli Sparks glam...), mentre non sono calcolabili quelli contenuti nei dieci minuti finali di “Dragon’s Lair” (convincente almeno quanto l’altrettanto epica “Kissing The Beehive” che chiudeva “At Mount Zoomer”, per quanto più contemplativa). Apice di Krug e di un genere. Lunga vita. www.sunsetrubdown.net www.myspace.com/justchoke