L’ opus discografico di Tara Jane O’Neil testimonia uno dei brillanti percorsi post-rock che, assieme a David Grubbs, David Pajo e Brian McMahan, Chris Brokaw e altri, a partire dalla militanza in una band-cardine (i Rodan, in questo caso), perviene a eleganti forme folk-cantautoriali ancor più personali e alienate. Nel caso dell’autrice in questione, c’è anzitutto l’apporto al controcanto (quello femminile che gli Slint tanto cercavano nell’immediato post-"Spiderland") e al basso elettrico per l’unico Lp della band madre, la folgorazione "Rusty", quindi l’esperienza comunitaria con Sonora Pine e Retsin, infine la magnifica carriera solista. Tara Jane ha all’attivo almeno un paio di dischi memorabili di magoni dissonanti, sofisticazioni Mitchell-iane e introspezioni neo-classicheggianti a base di cantilene afone ma preziose ("Peregrine" e "In The Sun Lines"), oltre a due erudite decostruzioni del verbo folk-country ("You Sound Reflect" e "Tjo Tko"). Fa strano, dunque, imbattersi in un disco amorfo come "In Circles", suo ultimo lavoro su Touch & Go. Il preludio cinese-dissonante di "Primer" (l’omaggio-corrispettivo della rocciosa "Shiner" di "Rusty"?), con i suoi tintinnii e la sua stasi percussiva, non porta che a un timido fraseggio di chitarra. La romanza country di "Blue Light Room", pur con il suo canto suadente, è curiosamente rilassata su una struttura-canzone per nulla brillante. Lo strumentale "This Beats" è banale fragore di melodica e accordion dal quale si stagliano - in due tempi - l’acustica suonata dalla cantautrice e le percussioni minimali. Per arrivare ai suoi consueti tocchi d’innata maestria bisogna passare per le tradizionali "A Partridge Song" e "The Louder", per il timido omaggio strumentale alle chitarre riverberate della Colleen di "Golden Morning Breaks" di "Fundamental Tom", e per l’assordante pedal steel di "Need No Pony". "A Room For These" attacca così con un sound collage di chitarra in dissonanza, arrischiando una strofa eccessivamente allungata nell’ordito di acustica e slide , e chiudendo con fare grandioso. "The Looking Box" tra rimbombi, riverberi e pennate tra lo svogliato e il languido - pure con un chorus formulaico d’effetto - potrebbe essere un’aggiunta maggiore al suo canone (degna almeno di "In The Sun Lines"), ma che finisce per suonare come abbozzo incompiuto. "A Sparrow Song", infine, è il refrain (quasi à-la Vashti Bunyan) che più si fa ricordare, quasi un’inedita forma-canzone per blocchi contrapposti e chiusa strumentale dolente. Album ben più vuoto che pieno. Il vuoto è costituito dalle occasioni perse dei brani strumentali, dalle canzoni confuse o prive di veri spunti emozionali. Il pieno - da par suo - è dotta imitazione del sound personale della cantautrice. Pare soprattutto un adempimento contrattuale, al meglio una labile appendice di una passione a cui l’artista sembra credere in modo ben più mirato: la pittura (cfr. artwork del disco).www.myspace.com/tarajaneoneil