Templeton Peck era quello che ci metteva sempre la bella faccia. Affascinante e subdolo, Sberla era il membro dell’A-Team che più si discostava dalla figura del militare ben rappresentata dagli altri membri del gruppo. Il trio britannico di cui vi parliamo ne riprende non solo il nome, ma anche quel modo di fare piacione e forse anche un po’ antipatico, spudoratamente ruffiano nell’approciarsi alla propria musica con la furbizia di chi non ha grosse pretese se non quella di stamparsi nella mente degli ascoltatori più giovani ed ingenui. Undici tracce di punk rock irrobustite da un hardcore melodico e saltellante che trova in band come Raise Against e Sum 41 i suoi principali punti di riferimento, questo è il biglietto da visita di una formazione che non guarda certo alla forma; il cantiere sonoro è sempre lo stesso dall’inizio alla fine e non ci si mette molto per ritrovarsi circondati da decine di ritornellini catchy, melodie ariose e banali ritmiche spumeggianti adatte quasi solo ed esclusivamente a cuccare le pollastrelle presenti al party in piscina di turno. La voce pulita onnipresente del bassista/singer Neal Mitchell – affiancato nei cori da stadio dal chitarrista Kev Green – è solo la punta dell’iceberg di un disco non brutto, ma certamente banale, prevedibile e di cui non si sentiva veramente il bisogno. Impressioni non certo delle più rosee, alle quali si aggiunge una staticità tecnica ed esecutiva disarmante: le variazioni di registro faticano ad essere rintracciate – la più lampante è forse l’ausilio di orchestrazioni presente in “What Are You Waiting For”, pezzo più emotivo dell’opera – e l’intraprendenza verso un assetto più personale non sembra interessare molto alla band. Non pensiamo che qualcuno si aspettasse dai Templeton Pek una rivoluzione totale in un genere che, oramai già da qualche anno, ha esaurito tutto quello che poteva dire, ma perlomeno era lecito attendere qualcosa di più coraggioso e un po’ meno plagiante di questo “Signs”, che non avremmo comunque apprezzato granché, lo ammettiamo… ma le possibilità da giocarsi vanno pur giocate bene. Ci si chiede come un’etichetta storica come la Century Media possa mettere sotto contratto questo genere di prodotti ed invogliare così il pubblico a guardare altrove.