POLYPHONIC SPREE I brani di "Together we're heavy" sono stati concepiti come proscuzione diretta ai dieci dell'esordio: ancora canzoni-sezioni, la cui numerazione (e mancanza di pause nell'avvicendarsi) continua di fatto, da dove sospeso, come un romanzo in diversi volumi. Con lo scioglimento di Tripping Daisy, Tim Delaughter ha iniziato ad abbinare la propria ricerca di songwriter pop a una smisurata quantità formale. I Polyphonic.. si definiscono "band di pop sinfonico corale". Ci sembra che la natura tragica del coro si sia qui ritagliata una funzione puramente decorativa. Il ruolo del coro come io-narrante s'è affievolito; pur non mancando il sostegno "popolare" al protagonista, è subentrata una sezione d'archi che soverchia ogni buona intenzione come un fiume in piena. Una babele di fiati come violente pennellate a mostrarsi temibile e squilibrata. Nell'esordio "The Beginning Stages Of" si poteva sovente ammirare splendidi paradisiaci orizzonti ("Days like this keep me warm"), si contemplavano confidenziali, luminosi e benedetti interludi arcadici semiacustici come Flaming Lips e Mercury Rev prescrivono. Qui l'insieme risulta carente di equilibrio. Fa uso spesso smodato di retoriche del sinfonismo pop più kitsch. Gli arpeggi di "A Long Day Continues / We Sound Amazed" fanno da intro a un'onirica melensa ballata d'atmosfera mccartneyana dall'eccellente refrain, come tutti e venticinque marciassero nella mitica Abbey Road. Splendidi e rigeneranti i due minuti di camera in "Ensure Your Reservation", altrettanto bene regge l'equilibrio tra polifonie miste e corde classicheggianti di "Diamonds/Mile Devotion To Majesty" e "Suitcase Calling". Organismi viventi di suono e che si sarebbero dovuti saggiamente ripetere. Su "One Man Show" Delaughter recupera l'estro narrativo cortese mitologico di Peter Gabriel (col falsetto di Wayne Coyne, però). Sui quasi nove minuti di "Suitcase Calling" succede un pò di tutto. L'accompagnamento strumentale è ora morbido e sognante ora sincopato e ridondante nell'insieme. I cori di velluto ne sostengono con efficacia le spinte limitando l'effetto di gravità, ma il tronfio qua e là viene a galla. "When The Fool Becomes A King" è infine l'apice, il t(ri)onfo d'ogni accademismo. Dieci ampollosi, disarmanti minuti, di rimandi Genesis, George Martin, Chicago, Van Dyke Parks. Poco o nulla giova il senso fantastico, stralunato e irregolare: l'enfasi è sin troppo compiaciuta e ci si dovrebbe prender meno sul serio. Il calore opprimente e melenso dei cori è deleterio: come un abbraccio troppo forte finisce per opprimere e soffocare. L'asfissiante sensazione dalle orecchie si trasferisce presto alle membra, a tutto il corpo: Together we're heavy dunque anche in senso di peso e gravezza, mostrando un egotismo poco incline a un dialogo con l'ascoltatore. Sulla conclusiva title track "Together We're Heavy", sembra che la schiera abbia invece trovato il proprio El Dorado: ambiente pastorale e remoto, echi di ambient, toni smorzati. Sensi dilatati, comunione con la natura, beatitudine. I ragazzi paiono meravigliati e increduli. In conclusione: se l'esordio faceva prender parte alla processione dei texani, trasferiva, immergeva dentro e insieme l'ascoltatore quale parte del coro, questo seguito finisce per travolgere e ribaltare. Al che si resta soli e un po' malconci, al bordo di un tratturo, a riprender fiato.