Tigran è un musicista che sa sorprendere. Non solo perché i suoi lavori sono la voce di universi musicali sempre diversi, ma anche perché le sue doti di compositore, pianista (e qui anche di cantante) hanno un ampio raggio d’azione. Ciò a cui tiene fede è quell’appartenenza alla sua terra, alla sua tradizione. Levitation 21, a cui spetta il compito di aprire l’album, è una scossa elettrica: una sorta di elettroshock per le orecchie e la mente. L’altalena tra un roccioso percorso sonoro e la calma, la quiete, tenuta sempre sul filo dal tocco vigoroso e rapido di Tigran e dall’incessante macchina ritmica di Hnatek, fa da apripista a Our Film con una melodia avvolgente, sostenuta da leggeri finimenti elettronici e rapidi scatti armonico-ritmici imbastiti da Marien e corroborati dal violoncello di Manukyan. Il musicista armeno è tempestoso, ingoia voracemente le note, disegni accordi melanconici subito rinforzati da tunnel di acciaio ritmico, così in Ara Resurrected e in The Space Of Your Exitence, con i piatti di Hnatek che scandiscono il tempo inesorabilmente. Ma le sorprese sono sempre dietro l’angolo con Tigran: ecco che arriva il passo felpato da felino di The Dream Voyager, che si tuffa in una fusion personalizzata dalle sonorità asiatiche; così anche la dolcezza dell’armonia pennellata nella breve At A Post-Historic Seashore e nel lirismo trionfale di Old Maps, arricchita dal coro dei ragazzini di Gyumri; lirismo che torna prepotente nella potenza espressiva di Newly Weeds, dove le voci fanno la differenza. La polposa elettronica di Vortex è arricchita dal forbito linguaggio chitarristico di Abasi, mentre Tigran evoca la circolarità della tradizione armena. New Maps chiude il cerchio, con l’energica esecuzione in trio, di un album che rivela tutta la ricerca musicale e sonora di Tigran Hamasyan.