L’idea iniziale era infatti quella di andare a registrare a Nashville, grazie all’intercessione di Jack White, assieme a musicisti locali, utilizzando gli strumenti della tradizione e con Daniel Lanois alla produzione, quasi a voler dare ragione a chi sostiene che i nostri siano una versione nordafricana del country.
I programmi sono cambiati una prima volta a causa del Covid, e sono stati Lanois e alcuni musicisti americani a partire per l’oasi di Djanet in Mauritania, dove era stato allestito uno studio grazie anche agli amici Imarhan, i quali hanno prestato anche il chitarrista Hicham Bouasse. Poi il virus ha colpito il produttore e gli americani sono tornati a casa, col disco completato a distanza da Lanois e dai musicisti.
L’album è stato preceduto da Tenere Den, con il relativo video diretto da Alexis Jamet, esempio eloquente dei termini in cui si svolge nella realtà l’annunciata espansione in senso tradizionale americano del disco: da una parte, l’utilizzo di banjo, violini e pedal steel dà in effetti un tocco country alle canzoni, dall’altra la loro formula, tra le melodie e i curiosi ed affascinanti ritmi dagli accenti inattesi (l’iniziale Kek Alghalm, Arajghiyinee altre), accoglie con naturalezza quegli strumenti, rendendoli più un arricchimento che non una svolta, in un disco che conferma il fascino di questo afroblues solare e sommesso insieme.