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TRIOSK The Headlight Serenad Se ogni disco pubblicato dalla Leaf fosse della grandezza dei capolavori dello scorso anno (il jazz bambinesco e concreto di Hanne Hukkelberg e la classicità electro di Murcof), si dovrebbe davvero andare in pellegrinaggio a Londra e costruire un monumento davanti alla sede dell’etichetta. Eppure, non sempre siamo così fortunati. Le astrazioni jazzy degli australiani Triosk, giunti al terzo album, non incantano e non sorprendono; preferiscono cullarti con dolcezza in un fluttuare di pianoforti e batterie, descrivendo percorsi notturni aerei e immaginari: sembra quasi di sentire i Tortoise assieme alle band della Too Pure dei primi anni ’90 (qualcuno ricorda i Moonshake?), con il rischio costante di far sembrare tutto fin troppo evanescente. È il pianoforte a delineare le melodie, minimale come si conviene a qualunque epigone di Satie, ma sono poi le percussioni a reggere le sorti dei brani: piccole, metronomiche, frenetiche, sottilissime.
L’iniziale “Visions IV” parte dall’astratto per arrivare ad un jazz più tradizionale, ma è solo un caso; da lì in poi il percorso si fa sempre più etereo, come in “Lost broadcast” (con il suo Rhodes lasciato a vagare nell’aria) o nel basso acustico in loop di “Intensives leben”. Gli oltre dieci, lentissimi minuti di “Lazyboat” fanno da ipnotico spartiacque del disco, ma il suono non cambia granché: “Not to hurt you” si appoggia su una frase dolcissima ed elementare di pianoforte, mentre tutto attorno la ritmica è sempre più frantumata, sfasata, imprevedibile. “The headlight serenade” è una volatile collezione di jazz alieno, impalpabile, per niente semplice; si balocca tra ritmi sintetici e reali, variazioni impercettibili, sospensioni di pensiero e reale. Non all’altezza delle migliori uscite Leaf, ad ogni modo, anche se i Triosk potrebbero diventare grandi, liberandosi dall’ossessione eterea che stringe le loro mani.

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