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UNMADE BED

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Nati come prosecuzione dei My Best Friend's Birthday da un'idea di Loranzo Gambacorta (già batterista in una cover band), i fiorentini Unmade Bed debuttano nel 2009 con il pregevole “Loom”, un disco che esalta e rinnova la missione psych-pop di Jennifer Gentle e Father Murphy. Il secondo disco lungo, “Mornaite Muntide”, polverizza qualsiasi stereotipo. Il suo effetto catartico nei confronti del rock alternativo è lo stesso che ebbe la Third Ear Band nei confronti della psichedelia. I lunghi, esausti brani di cui si compone sono altrettanti capitoli di una fiaba arcana, visionaria, fantasmagorica e - in buona sostanza - muta. “The Death At Twilight Of 25 Shattering Pieces Of Sharpring Thin Ice” funge da primo capitolo, ma in realtà è la cupissima ouverture. La storia si apre su uno scenario dissonante di carillon, clarini e conciliaboli in forma di nenie. Folate elettroniche e percussioni in lontananza avviano una terribile marcia funebre, ma poi tutto fluttua in regioni armoniche indefinite, come in un tono continuo di una "Dream House” di LaMonte Young. Seguono tre vasti poemi da camera. Il primo, “Luna (And The Great Parade Of Creatures Tiptoeing Around The Scarecrow)” è, dapprima, un valzer macabro sovrastato da bisbigli di strega. Ritmo e armonia si annullano in note fantasma d'organo, con campanelli percossi a forza e formule magiche di passaggio, e in una ninna-nanna libera di chitarra che rasenta la follia placida di Robert Wyatt, per finire in un crescendo assordante di vocine, risatine e palpiti di anime del Purgatorio. Il secondo poema è formato da “Gentle Marionette Firflies Lullabying Weavy” e “The Loony Crowes Hoohaywire In The Shadows Of The Gigantic Moon” in sequenza, per un totale di tredici minuti. L'inizio è analogo al brano precedente, ma è molto più subliminale nei passaggi di testimone tra strumenti (tutti martoriati). Il tutto finisce per diventare visione psichedelica-circense di organo solo, che in “The Loony Crowes Hoohaywire In The Shadows Of The Gigantic Moon” sfocia in frattale cosmico alla Philip Glass, accompagnato da tamburi bellici. La sostanziale differenza con il minimalismo storico sta nel fatto che la versione data dalla band è infinitamente più instabile, al limite dell'alea, e nevrastenico fino al caos assoluto, quasi il contrario della sua tipica algebricità. Infine, i dodici minuti di “At Twilight, Giant Farflies” chiudono grandiosamente spompando una spompata canzonetta da circo (mista a serenata Barrett-iana) in cristalli d'organo e chitarra cacofonica; una pausa dedica uno spazio a una musique concrete di insetti estivi, per riprendere - senza percussioni - con un duetto di fiati e un crescendo di piatti psichedelici (gli ultimi cinque minuti della piéce sono i più stereofonici di tutta l'opera). Album-allucinazione in cui i titoli parlano più di qualsiasi testo cantato, anche perché le voci sono ridotte a pochi istanti di escrescenze verbali che vegetano a un volume miserabile, quando va bene, mentre per il resto sono risatine malefiche, versi satanici, urla, strilli, gargarismi, boccacce. E in cui l'organizzazione spaziale dei blocchi di suono (all'inizio improvvisata, poi riprocessata) conta più della composizione o di tanti e tanti orpelli d'arrangiamento. In questo il gruppo è aiutato grandemente dagli spazi della sconsacrata chiesa di San Giusto, a Firenze, dove il disco è stato registrato, che hanno aggiunto un senso di eternità panica, e dal metodo di registrazione “binaurale” di Franco Russo (un workshop itinerante che modella il suono tramite due microfoni spazializzati e una “testa virtuale” che capta le sorgenti nelle veci dell'ascoltatore in carne e ossa). È un'opera sconfinata che inventa, oltre a una splendida “figuratività” di una fiaba inquietante, il post-rock italiano “tridimensionale”, come un tempio votato al culto del futuro. Fiati di Giulio Fazzini, voci di Marco Giusti, artwork di Francesco Coschino e Margherita Baldini. www.seahorserecordings.com www.myspace.com/unbed

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